elaborazione grafica di Enrico Cicchetti

una fogliata di libri

Anche un diario della pandemia può raccontare un piccolo mondo

Marco Archetti

È in libreria, per Adelphi, “Arresti domiciliari-diari della pandemia”. Se l’unico diario che si rispetti è quello in cui non accade nulla, a parte la lagna, questo non è un diario che si rispetti perché, per fortuna, contiene molto

Racconta Alan Bennett nel suo ultimo “Arresti domiciliari-diari della pandemia” (Adelphi, 64 pp., 5 euro) che un giorno George Steiner chiese a un dissidente sovietico come fosse riuscito a scrivere così tanto in vita sua. E quello rispose: “Arresti domiciliari, Steiner. Arresti domiciliari”.

 
Parte da qui il racconto dello scrittore circa i propri arresti domiciliari durante il lockdown. E da una considerazione oscuramente gioiosa, sub specie pandemica: avere l’endorsement del governo per il proprio mesto tran tran quotidiano di ottantaseienne pencolante tra divano e cucina, sentirsi legittimati a essere sé stessi per la prima volta. Diciamola tutta: si tratta di un’operina gradevole e smilza. Diciamola meglio: un’operina che, se raccontasse solo il lockdown, di ragioni per essere letta non ne offrirebbe molte, il che vale soprattutto per chi la pensa come Yasmina Reza. “Scriverà mai un romanzo ambientato durante la pandemia?” le è stato chiesto da una nota rivista italiana. “No”, ha risposto la Nostra senza tentennamenti. “E’ l’argomento più noioso del mondo”.

 

Buffo pensare, invece, a quante frivole paginate di riflessioni d’autore scaturirono in quei giorni. E a tutti quegli oziosi editorialini sul “tempo sospeso”, veri e propri girotondi del trallallà e dell’inessenzialità culturale, tutti vorticanti intorno alla soporifera domanda: “Come si racconterà la pandemia nei romanzi dei prossimi anni?”. Nel frattempo, gli scrittori fissati con l’essere la “generazione senza trauma”, agli arresti domiciliari di sé stessi, sfrigolavano di segreta, orrida soddisfazione: eccolo, il trauma! Dateci il nostro trauma! Evviva il trauma! (Trauma, in verità, assai sterile, e soprattutto vecchio come il mondo – è nato prima l’uovo o l’epidemia?).

 
Tornando a noi, cioè a Bennett. Si sa, l’unico diario che si rispetti è quello in cui non accade nulla, a parte la lagna. Ma questo non è un diario che si rispetti perché, per fortuna, contiene molto. Innanzitutto, la nota ironia bennettiana. E poi libri altrui, frasi lapidarie, cucchiaini di humor. Un ritratto dello scrittore da cucciolo specializzato nel farsi piacere i ragazzi “da lontano” o in darsi delle arie intellettuali – cucciolo che per mantenersi faceva il giardiniere in un crematorio, e qui invidi e pensi: ma perché le cose inenarrabili capitano sempre ad altri narratori? – fino a lampi comici su tutto il bizzarro quotidiano ulteriormente imbizzarrito causa anomale condizioni. E poi stilettate di ogni genere: le “frequenti interviste rare di Graham Greene”, le domeniche in famiglia a pescare nei posti sbagliati, il potenziale milionario zio Norris coi suoi rimedi, comunicati anche a Chruchill, sull’artrite. E l’appunto di una frase di E.M. Foster, che dice: “Il massimo che si possa desiderare dai lettori è che pensino: ecco cosa si prova a essere nei miei panni”. Ma ormai questo lo si pretende dagli scrittori – che ci raccontino cosa provano, come vivono, quanto soffrono, e giù egotismo senza Stendhal.

 
Toccanti, per compostezza, le tre pagine che raccontano la morte dell’amico Tony Cash. “Rivedo il berretto di quand’era ragazzo: sembrava una pantofola”. E poi l’ultimo capitolo, “Ritorno a casa”, vera misura del tempo e della scrittura: cinque pagine di classe cristallina, lezione su come si scriva in forza di ciò che non si scrive, e in debolezza di tutto il resto, compreso sé stesso. Pura grazia.
 

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