una fogliata di libri
Dopo la fine della tragedia e di Dio si fa ritorno al mito (e che mito)
“Della tragedia si potrebbe dire semplicemente che è come la vita: bisogna accettarne la catastrofe”
Della tragedia si potrebbe dire semplicemente che è come la vita: bisogna accettarne la catastrofe, entrambe finiscono male. E da qui si può cominciare perché, come per la vita, è da questa consapevolezza che nasce l’interminabile ampiezza e profondità della tragedia di cui, in un volume memorabile, George Steiner ha raccontato la morte.
Per il grande critico “la rappresentazione della sofferenza e dell’eroismo individuale, che noi chiamiamo tragedia, è tipica della tradizione occidentale” mentre è estranea alla concezione ebraica. Giobbe ad esempio viene ricompensato per le sue sofferenze mentre la tragedia è caratterizzata dalla cieca necessità. Per Steiner “l’insistenza del marxismo sulla giustizia e sulla ragione è tipicamente ebraica”, e nell’ottica “scientifica” di Marx la necessità è cieca solamente quando non la si capisce. La caduta di Gerico è un atto di giustizia, un istante nel disegno razionale della volontà divina mentre la caduta di Troia fa parte dell’impenetrabile spinta del fato. Freud attraverso il complesso di Edipo, figura per eccellenza della tragedia, ha ridotto il cieco fato alla presa di coscienza di un complesso che si può fronteggiare con armi analitiche e quindi razionali. E’ una somma riduzione del tragico al dramma, ossia a una “catastrofe” da cui si può uscire con mezzi tecnici o sociali: la riduzione del tragico al dramma è la riduzione delle cause ultime alle cause sociali.
Nella tragedia “il rancore vendicativo o l’ingiustizia degli dei nobilitano l’uomo; non gli rendono l’innocenza ma lo santificano come se fosse passato attraverso il fuoco”. Tutto ciò però ha a che fare con le cause ultime appunto, non con quelle sociali. La giustizia, infatti, ha in sé qualcosa di divino, come la verità, ed è per questo che entrambe appaiono tremende, perché hanno stimmate numinose. La verità e la giustizia sono una diade assoluta. L’una realizza l’altra. Il dispiegarsi di Dio nel mondo è una teodicea, una marcia per la giustizia. Ma la giustizia che si fa immanenza pura, che diviene realizzazione non degli scopi divini ma degli scopi umani nel mondo non può che divenire giustizia sociale. L’unica verità possibile dell’immanenza diviene quella realizzata socialmente, la giustizia sociale è l’unica verità possibile del mondo de-divinizzato. Che è anche il mondo liberato dai bisogni, trionfo del benessere liberale, in cui l’unica giustizia sociale possibile ancora da realizzare è quella dell’abolizione del dolore. E una tale abolizione rappresenta il culmine di ciò che è anti tragico.
Lou von Salomè diceva che la consolazione di un dolore inconsolabile sta nella sua grandezza e questa frase sembra riassumere l’intera portata della tragedia come arte: il dolore insensato, inspiegabile e irreparabile ricondotto a forma. La morte della tragedia è la morte del dolore, la morte della morte e quindi, in sostanza, circolarmente, la morte della vita che si nutre della sua stessa intrinseca tragicità. Senza il tragico si finisce conficcati nel dramma asfissiante e noiosissimo, morte in vita, del sociale. La giustizia sociale, che diviene giustizia che pretende l’annullamento di tutte le sofferenze, è la nuova teodicea laica. Ed è pertanto radicalmente anti tragica, come lo è il marxismo in cui il conflitto è superato nella conciliazione avvenire della società senza classi, senza differenze. Ovviamente qui si parla non del marxismo dei proletari, strafinito, ma di quello dei sofferenti e delle vittime, ossia di tutti gli uomini che sono tali già da sempre perché soffrono. E in un tale ambiente una nuova figura mitologica si delinea all’orizzonte, un orizzonte fatto di eguaglianza assoluta e indifferenziazione sessuale (la differenza è dolore): la vittima androgina, figura archetipica radicalmente originaria, che appare sullo sfondo palingenetico dell’apocalisse climatica. Dopo la fine della tragedia e di Dio si fa ritorno al mito.
Michele Silenzi