Una fogliata di libri
Quel mirabile Buzzati ingiustamente sottovalutato
Lo scrittore bellunese, autore del primo esempio di graphic novel italiano, riunisce in poco più di duecento tavole tutti i dogmi della sua poetica, dal sentimento dell’attesa alla “spiegazione dell’aldilà”
Non ridere del mio progetto”, disse Dino Buzzati a Vittorio Sereni, all’epoca, nel 1965, direttore letterario della Mondadori, “che può anche darsi non riesca a realizzare”. Pregava di non essere sbeffeggiato, consapevole fin da subito di una cosa: “Si sfogheranno tutti, ahimè. Non ha più niente da inventare questo vecchio scrittore, sentenzieranno, e si è messo a fare i giochi infantili”. L’aveva intuito da sé che questo “Poema a fumetti” non sarebbe stato un libro facile, alla fine sarebbe risultato addirittura incompreso non solo dai critici ma anche dai lettori più affezionati – che già qualche anno prima, nel 1963 quando uscì “Un amore”, misero il romanzo a processo. Che fine ha fatto il fantastico? E perché tanto realismo? Nel 1969 si assistette più o meno alla stessa faccenda, complice quell’erotismo troppo esplicito per l’Italia di fine anni Sessanta.
Ma “Poema a fumetti”, di fatto il primo esempio di graphic novel italiano, resta uno dei testi più ingiustamente sottovalutati dello scrittore bellunese e sottolineo “ingiustamente” perché è un’opera onnicomprensiva di un linguaggio, di un modo e di un contenuto, quelli che rispecchiano appieno la poetica buzzatiana. “Ma le stelle le avete? Sì, certo, però hanno una luce fissa, non palpitano come lassù. E il vento? La tempesta? Vento sì, tempesta sì, non la paura”, dice una giacca parlante, vuota dentro, priva di corpo (come l’armatura del cavaliere inesistente di Calvino), rispondendo alle domande di Orfi, il protagonista che scende nell’Aldilà per riportare sulla terra la sua Eura (i nomi dovrebbero ricordarvi il mito classico di Orfeo ed Euridice, riletto da Buzzati in chiave hippy). Cosa manca davvero nel mondo dei più? “La libertà di morire” e quindi, ancora una volta, la paura. L’Aldilà appare in prima battuta come uno specchio del mondo visibile (o forse, per dirla con Anna Maria Ortese, non è che l’ultimo gradino della realtà) ma è solo un’illusione: mancano quegli elementi che ricordino una “cara infelicità!”, dunque la vita. Uno specchio che non riflette con esattezza, uno strumento che potremmo attribuire a Italo Calvino e che ci ricordano due delle sue città invisibili, Valdrada e Bersabea (formate da due spazi uguali ma diversi, perché anche se vivono l’una per l’altra in realtà “non si amano”), se non fosse che il capolavoro calviniano esce nel 1972 mentre “Poema a fumetti” è del ’69 (che si possa parlare di una qualche influenza buzzatiana?).
Fatto sta che Buzzati, con quest’unione di prosa e disegno, non solo definisce (eviterei il verbo “crea”, si tratta di un processo che inizia prima, negli anni di gioventù) il suo linguaggio principe, l’unico possibile per uno scrittore della sua portata fantastica e realista a un tempo, ma opera sulla pagina come fosse un testamento: riunisce in poco più di duecento tavole tutti i dogmi della sua poetica, dal sentimento dell’attesa – di cui Giovanni Drogo si fa portavoce nel “Deserto dei Tartari” – a quello della paura – disseminato in quasi tutti gli scritti, come nel racconto “Delicatezza” de “Le notti difficili” – dal duello infinito tra vita e morte alla “spiegazione dell’aldilà” (così s’intitola una sezione del poema). Tutt’altro che divertissement, “Poema a fumetti” può essere considerato una testimonianza pressoché esatta della letteratura di Buzzati, fatta di colore e non solo di parole, di lunghi silenzi e di foltissimi dubbi.