Tutto Martin Amis in un'opera che è pura e semplice Letteratura
È in libreria, per Einaudi, “La storia da dentro”, dell'autore da poco scomparso. Difficile chiedere di più a uno scrittore o a un libro. Te ne accorgi dopo mezzo paragrafo
Nel primo capitolo, che si intitola “Preludio” (ma avrebbe anche potuto chiamarsi “Come va?”, “Welcome!”, o “Sulla porta”), il lettore de “La storia da dentro” (Einaudi) viene accolto in casa Amis dall’autore in persona. Sembra di vederlo: faccia un po’ lucida da dandy non persuaso, lo sguardo di uno che si è svegliato così e così, la bocca labbruta e pigra, i polsini slacciati sotto la giacca. Martin Amis, lui: il Piccolo Keith, il grande Genio. Ed è lì che accoglie, chiacchiera e fa gli onori di casa, offre un whisky, si qualifica come genitore permissivo, dichiara che lo scrittore è solo uno che fa la stessa cosa per quarant’anni (Philip Roth era della stessa opinione, vedi la storiella delle frasi da girare e rigirare), infine proclama Nabokov suo eroe. Ma tutto questo è solo un gioco, un artificio, perché la realtà è un’altra: la sala in cui sei ospitato non è quella di casa Amis, ma della Letteratura. Tutto, tra queste pagine, è Letteratura. Ne ha il respiro, il passo, il tono. Difficile chiedere di più a uno scrittore o a un libro. Te ne accorgi dopo mezzo paragrafo. Letteratura.
E questo, senza alcun dubbio, si può chiamare solo Libro. Come vuoi definire un’opera che è, allo stesso tempo, sé stessa e sempre altro? E’ romanzo mentre è autobiografia (“le parole vengono più facilmente quando si indossa il perizoma della terza persona”.) E’ un saggio anche se sembra un assolo. E’ un afflato, seppure, di continuo, è costruito come un contro-afflato. E’ un trattato sul suicidio proprio mentre lascia intravadere la grazia dell’esistenza. Ma soprattutto è una Gloriosa Rimasticazione, Festa della martinamisità, suprema ballata per tre amici (Bellow, Larkin e Hitchens) che non ci sono più – la Morte in faccia e la Vita già di spalle. E lo scrittore è, va da sé, uno Scrittore: uno che fa e disfa, che fa affiorare e trafigge, e che rinomina le cose da capo al punto che nomina anche la tua banalità nel guardarle. E lo fa con una lingua ad alta cilindrata, che fa cantare le marmitte di un’irriducibile, grintosa Singolarità. Della sadica fidanzata Phoebe Phelps, di corsa sotto un’acquazzone, con lui per raggiungere il party di una rivista di nudo, scrive: “L’ombrello in stile pop-art aveva evidenti difetti di progettazione e Phoebe, con i capelli arricciati, il vestitino a fiori ridicolmente corto tutto chiazze bagnate appicciate al busto, sembrava gambuta, filiforme e pazza, una bambola di stracci stuprata”. Chi avrebbe saputo fare di meglio alzi la mano.
In questo Libro dello Scrittore, ci sono molti Libri. Ma ce n’è uno, in particolare, che corre parallelo: si trova nelle note a piè pagina. Che sono zeppe di aneddoti, pensieri collaterali non rassegnati alla collateralità, notizie storiche, boutade, istruzioni per l’uso della sbronza, appunti di realtà, dissonanze di attualità, mutande lavate in pubblico – bellissima quella che denuncia la propria arrendevolezza alle lusinghe del potere: “Quando divenni responsabile della seconda metà del News Statesman mi fu assegnata una segretaria”, racconta Amis. “Diventai borioso e compiaciuto come non mai. Perché avevo una segretaria”. (Sottinteso: pensate che pirla.)
Molte pagine sono Manuale di Scrittura, nel senso che Amis si mette lì e ti dice: si fa così e cosà. Quelle vanno incorniciate. Sono tutte contro l’afflizione, perché la vera grande scrittura è sempre divertente. Come Kafka. Come Dostoevskij. “Qualunque cosa ti abbia raccontato il tuo professore”, se la ride Amis.
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