una fogliata di libri
Un mondo di santi e buffoni dove c'è sempre un capro espiatorio
“Il capro espiatorio”, di August Strindberg, è edito da Carbonio, che orgogliosamente annuncia di pubblicare poco (e bene)
Quando una piccola casa editrice fa sapere al mondo che le sue uscite annue sono limitate – pochi titoli – l’attenzione di chi ascolta tale proclama dovrebbe destarsi immediatamente. In un mercato inflazionato, con libri su tutto lo scibile umano (e forse pure oltre), dalle ricette di cucina per chi non vuole irritare troppo il colon a volumi sulla pedicure di cani e gatti, chi orgogliosamente annuncia di pubblicare poco merita approfondimenti. La casa editrice Carbonio è una di queste, qualcuno la potrebbe definire di nicchia (e in parte lo è), ma gli autori in catalogo sono per lo più noti, anche se di certo non portano orde di lettori a fare lunghe code in libreria per acquistare il prezioso volume di cui tutti parlano. Negli ultimi mesi hanno mandato in stampa, ad esempio, “Alla vigilia” di Ivan Turgenev e “Il capro espiatorio” di August Strindberg. Nomi celebri della letteratura mondiale, ma che oggi sono fuori moda.
Propongono temi lontani dal mainstream, qualcuno li potrebbe definire “noiosi”. Turgenev, ad esempio, la cui unica sfortuna è quella di essere nato in Russia insieme a Tolstoj e Dostoevskij (per limitarci solo a due nomi): scrive di vita e felicità, di solitudine e desiderio, di peccato. Dell’insopprimibile impulso umano a essere felici; impulso che da che mondo è mondo è sempre frenato da mille ostacoli, imprevisti, dolori. Chi oggi vuol sentire parlare di ciò? Pochi, tanto che lo si potrebbe dire fuori dal tempo. E poi Strindberg, che in questo delizioso libello fiin dalle prime righe porta il lettore – anche quello più distratto, semisdraiato sul divano – a pensare a Kafka e quindi forte risulta il compiacimento quando, terminato il libro, si scopre in retrocopertina una frase di Kafka: “Non leggo Strindberg per leggerlo, ma per posare la testa sul suo petto”.
Questo giovane avvocato, Libotz, “irreprensibile, puntuale, capace” che non riesce a sfondare. Anzi, più si mostra volenteroso, “umano” e disponibile, più viene schernito ed emarginato dalla folla, dal mondo che pensa ad altro e che poco tempo ha a disposizione per lui. Non capisce perché non piaccia a nessuno, sul suo volto è sempre stampato quel sorriso doloroso che viene colto solo dall’oste Askanius, l’unico che gli dà un po’ di corda, pur tra mille sospetti e diffidenze. Si innamora, o meglio, nella sua rigidità progettuale capisce che deve cercarsi una partner. Studia un po’, quindi mette gli occhi su una delle cameriere di Askanius, Karin: “Una ragazza biondastra che lavorava ai tavoli, non aveva nulla di attraente, però le sue maniere erano oneste, casalinghe, simpatiche”. La porterà in gita cercando di trovare argomenti di discussione in comune, senza risultati e tanta ulteriore frustrazione.
Le cose iniziano ad andare un po’ meglio quando ecco l’imprevisto: l’arrivo del padre ubriacone, un mezzo ladro che vendeva con l’inganno caffè avariato nel suo emporio. Per Libotz è uno shock, ma dopotutto il suo cuore è buono e quello è pur sempre suo padre. Alla fine le cose si mettono male, il padre è senza soldi, la giustizia lo bracca. Il figlio cerca di fargli capire come stanno davvero le cose. Lui la prende male, si ubriaca ancora di più e non trova di meglio da fare che insultare un poliziotto. Arrestato, il giorno dopo il giornale scriverà che non solo il padre, ma pure il figlio erano nottetempo in giro ricolmi di cognac fin alla testa a insultare bravi uomini di legge. Lui cerca di spiegare che non è vero, che è tutta una falsità. Nessuno gli crede, neanche Askanius. Per un po’ tenta di far valere le sue ragioni, cerca appigli fattuali e legali, descrive la realtà, poi capisce e lascia perdere. Che le cose vadano come devono andare, in questo mondo di santi e buffoni dove a non essere premiata è sempre l’ingenua franchezza.
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