Elvio Fachinelli, il perfetto psicanalista della psicanalisi
“Esercizi di psicanalisi” (Feltrinelli), curato da Dario Borso, ci offrono un’immagine esatta del loro autore, conferenziere che un po’ vuole emancipare i lettori e un po’ sedurli
Se si dovesse definire Elvio Fachinelli con una battuta, ce la si potrebbe cavare dicendo che è stato uno “psicanalista della psicanalisi”. Tra gli intellettuali del suo tempo viene da paragonarlo a Cesare Garboli, letterato che come lui rifiutava l’istituzionalizzazione del suo campo di studio, e a Giorgio Colli, filosofo altrettanto interessato alla conoscenza mistica e incline a ritradurre originalmente i classici della propria disciplina. Questa opinione si rafforza davanti agli “Esercizi di psicanalisi” usciti per Feltrinelli a cura di Dario Borso. E’ una raccolta che ospita scritti composti lungo gli anni ’70 e ’80: interventi pubblici, articoli appena abbozzati o sepolti nelle biblioteche, ma soprattutto pagine di diario ricche di spunti clinici e culturali. Gli argomenti sono tipicamente fachinelliani: estasi, ossessione, vittoria dell’immaginario sul reale, inconscio come corpo o bacino d’immagini; chiose a Freud, Benjamin, Lacan; interpretazioni analitiche dei fatti di cronaca e costume (il ’68, la morte di Pasolini, il sequestro Moro) o delle prove letterarie di qualche psicotico; riflessioni sui modi in cui i bambini caricano di senso utopico gli strumenti degli adulti; infine, magistrali ritratti di colleghi (Musatti “modello totale di felicità” e il terroristico Verdiglione, tartufo perfino nel fisico).
Il leitmotiv resta la critica dei luoghi nei quali l’analisi scade a ideologia, riducendosi a un “sistema genitoriale accessorio”. E’ l’analisi che non recupera ma accresce il rimosso – ad esempio evitando di parlare di quel denaro per cui pure, annota Fachinelli con autoironia, anche i peggiori analisti hanno un fiuto così sviluppato da azzeccare infallibilmente la diagnosi sul ceto del paziente. Il fatto è che “Socrate non può entrare a far parte dell’Areopago”: se Freud prende il potere, somiglia un po’ ai marxisti in Urss. La dottrina, prima rivoluzionaria, non vede più il “tragico” dell’esistenza, e allora “è la rivoluzione stessa che diventa tragica”. Perciò Fachinelli esplora le esperienze che sfuggono alla ragione psicanalitica; ma lo fa sottraendosi alla logica dell’eresia (addirittura più totalitaria dell’ortodossia) e anche a quell’analogismo che in Lacan e Jung finisce per spiegare tutto ovvero niente. Il suo metodo consiste semmai nello sciogliere le strutture di pensiero irrigidite, che tendono sempre alla paranoia, in una fluttuante costellazione di idee.
La sua prosa, sofisticata eppure piana, accoglie gli incidenti autobiografici e custodisce l’enigma nascosto tra le intercapedini della teoria. Fachinelli sperimenta uno stile quasi stenografico: astuzia che gli consente di accennare a paradigmi alternativi senza costruirvi sopra una retorica velleitaria. Se per alcuni autori i diarii sono solo materiale preparatorio o di scarto, per lui sono l’essenza stessa della scrittura. Il suo genere è infatti l’appunto “aperto”: il che spiega perché questi “Esercizi” ci offrano un’immagine così esatta del loro autore, conferenziere che un po’ vuole emancipare i lettori e un po’ sedurli. Se questi due tratti rendono Fachinelli un Giano bifronte, nel suo prefatore segnalano invece una scissione. Massimo Recalcati ci presenta il volume con un saggio preciso. Ma proprio per questo, mentre lo si legge non ci si può non chiedere se sia lo stesso psicanalista che interviene di continuo sui più diversi temi estetici o sociali con un linguaggio da pubblicitario. Non si accorge, il Recalcati giornalistico e festivaliero, che gli “Esercizi” parlano di lui? Non vede quanto è simile al Verdiglione che qui si nutre del sogno “di essere il capo di tutto”? Chissà. Certo è che anche la sua parabola sembra confermare la previsione fachinelliana sul destino pubblico della psicanalisi.
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