elaborazione grafica di Enrico Cicchetti

Bardo ed eremita, Battiato è stato pure profeta. A modo suo

Edoardo Rialti

Roberto Tardito ha scritto per Lindau “Franco Battiato. Lascia tutto e seguiti”

"Quando le sacerdotesse danzano nella grande sala del tempio, i monaci leggono nelle pose da esse assunte delle verità che gli uomini vi hanno inserito migliaia di anni fa”. E’ un ricordo del mistico Gurdieff. Ci sono parole e gesti che ci connettono a qualcosa di più vasto, una costellazione privata e universale. Così è anche per la musica e i versi delle canzoni. Nell’opera di Franco Battiato questa generica sottoscrizione emotiva è tutt’uno con la sensazione di ripetere dei veri e propri mantra, che fondono – ora lievi ora gravi – sufismo, Baudelaire, Rolling Stones. Alcune immagini sono limpide. “Dalle finestre un po’ socchiuse spiragli contro il soffitto, / e qualche cosa di astratto si impossessava di me”: chiunque abbia fatto una pennichella estiva dai nonni sa di cosa stiamo parlando. Altre più difficili da spiegare. Cosa vuol dire che “Il re del mondo ci tiene prigioniero il cuore”?

   

Ciascun appassionato ha i suoi, intrecciati alla propria vita, stratificati di ricordi come nota Aldo Nove nella sua biografia Rizzoli. Chi scrive deve a Battiato il proprio esame di maturità in greco, un brano di Epitteto che sapevo a memoria da “L’Imboscata”. Il meditante e tanatologo Bromolini, che partecipò al documentario di Battiato sul Bardo tibetano, nella postfazione a “Franco Battiato. Lascia tutto e seguiti” di Roberto Tardito (Lindau) lo paragona al tempo stesso a un “filid” celtico, un bardo e a un’eremita egizio, uno di quegli isolati, sprofondati nell’Altro, che sostengono il nostro mondo variegato e dolorosamente confuso: “Un artista, che non è uomo di spettacolo, deve essere anche un profeta, cioè qualcuno non tanto che prevede il futuro, ma qualcuno che anticipa il futuro”. A ripercorrere gli oltre cinquant’anni di carriera del musicista, nel volume di Tardito ci si espone al variare di uno sperimentalismo che, proprio perché focalizzato su qualcos’altro, non ha temuto di rischiare la leggerezza e il kitsch, e proprio nella contaminazione pareva attingere ancora al sentenziare del venerato Gurdieff: “Come in alto così in basso”.

   

Dall’introduzione dei sintetizzatori alla collaborazione con Fleur Jaeggy, dalle opere su Gilgamesh alle “cazzate” – parole sue – sullo “shivaismo tantrico e la lotta pornografica dei greci e dei latini”. Battiato ha fatto un po’ quello che voleva, e l’impressione sottesa è che ci tenesse molto eppure pochissimo. Dal divertito impaccio dei balletti all’intensità con cui pregava-cantava in arabo, un gentiluomo in giacca, cravatta e chitarra senza risparmiarsi sui bend mentre il filosofo Sgalambro bofonchia in latino.

  

Così ha coinvolto generazioni che vanno ben oltre i fricchettoni appassionati di Madame Blavatsky e al tempo stesso ha risposto a suo modo alla fame per qualcosa di diverso, sacro, cioè separato, nell’involuzione individualistica degli anni ‘80 e ‘90. “Quei momenti eccezionali quando si ha sete di qualcosa di diverso dall’esistente”, notava Proust. Ce l’ha ricordato Battiato stesso: “Il giorno della fine non ti servirà l’inglese”. Tutto in noi, dal tormentone estivo a Bach, è fase e pretesto per un processo diverso. “La ragione ordinaria non consente all’uomo di appropriarsi della conoscenza, facendone un suo bene inalienabile. Eppure, per l’uomo tale possibilità esiste davvero. E’ certamente molto più facile abbandonarsi alla corrente e lasciarsi portare di ottava in ottava. L’uomo si tempra, e a ogni passo scopre orizzonti sempre più vasti. Sì, questa possibilità esiste”. Ancora Gurdieff, che attinge proprio alla musica per raccontare il nostro viaggio.

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