Che guaio se il mondo si dissolve in uno stato emotivo passeggero
L’identità è divenuta una storia, da raccontare agli altri ma prima ancora da raccontare a se stessi. Nel nostro stato di cose puramente narrativo non abbiamo più storia condivisa e quindi non abbiamo più mondo
L’identità è divenuta una storia, da raccontare agli altri ma prima ancora da raccontare a se stessi. Lasciamo da parte l’identità di popoli, nazioni, culture, non è ciò che qui ci interessa.
L’identità in questo caso è il racconto di sé a se stessi, un’autoprogettazione, una costruzione di chi si è, un’immagine-storia che si vuole proiettare al di fuori di sé. Questo sembra il punto massimo di quella dissoluzione di ciò che è concreto su cui tanti filosofi, sociologi, psicologi si accapigliano da decenni. Se persino il soggetto, ciò che sta sotto e sorregge, i greci avrebbero detto l’hypokéimenon, diviene qualcosa in corso d’opera, come lo è ogni storia, ecco che allora tutto è storia, ma non epocale successione di eventi, bensì ombelicale autonarrazione.
È questo un punto d’arrivo della celebre massima “Conosci te stesso” al cui proposito Goethe, in un leggendario aforisma, nota che gli “sembrò sempre sospetto, come un’astuzia di sacerdoti segretamente stretti in un’intesa, i quali volessero confondere l’uomo con una pretesa impossibile e stornarlo dall’attività rivolta al mondo esterno per impegnarlo in una falsa contemplazione interiore. L’uomo conosce se stesso solo in quanto conosce il mondo”.
Conosci te stesso diviene, invece, oggi, l’atto di cercare in se stessi la verità di un soggetto non più universale ma universalmente singolare che si vuole sganciare dal mondo troppo concreto con la sua impegnativa limitata evidenza e che cerca riparo in sé autodichiarandosi progetto in corso. E questo progetto, questa ricerca di identità che diviene una costruzione-narrazione, è l’unica “verità” a cui poter fare riferimento. È evidente come dinanzi a questa totalizzante ri-scrittura del reale, ogni altra forma di narrazione impallidisca.
Del resto, qualcosa come la teoria del gender con il rifiuto dell’evidenza biologica e con l’esaltazione dell’autoaffermazione di sé con tanto di vidimazione burocratica, è il trionfo di questo sistema di pensiero: sono ciò che sento di essere e ciò che racconto di essere. La storia che scelgo di narrare riguardo a me stesso diviene ciò che effettivamente, concretamente, sono. I miei stati emotivi sono anche i miei stati di realtà. La realtà diviene un’emozione raccontata. “Sono ciò che sento di essere” diviene il nuovo orizzonte di autoaffermazione individuale che svuota il mondo di ogni appiglio oggettivo e razionale (ribaltamento assoluto e forse, allo stesso tempo, punto conclusivo della svolta del moderno “penso dunque sono”). Non c’è così più Storia condivisa ma solo un’infinità di storie che mutano insieme al mutare delle emozioni di ciascuno. E ovviamente quello che era il mio stato emotivo, ossia il mio stato di verità ieri, potrebbe non essere più quello di domani.
Inizialmente il “Conosci te stesso” esprimeva la tensione a trovare ciò che effettivamente si era, di tenersi quindi a ciò che si era trovato e così porsi di fronte al mondo, con almeno quella possibile certezza di sé per poter affrontare il grande mistero in cui, come uomini, siamo immersi. Nel nostro stato di cose puramente narrativo, invece, non abbiamo più storia condivisa e quindi non abbiamo più mondo. L’uomo, attraverso la sua attività conoscitiva, tende spontaneamente a mettere ordine, a classificare, a organizzare, a dividere, a separare, a riunire in insiemi. Per fare questo, però, le cose devono avere una loro identità “oggettiva”, devono essere un “qualcosa”, e non una storia in corso d’opera, un flusso autonarrato. In questa azione di dissoluzione del mondo attraverso la costruzione narrativa dell’identità si annuncia l’avanguardia di un nichilismo antiumanista che mira a distruggere l’uomo in ciò che gli è più proprio: la sua capacità di conoscere. E in questo modo, il mondo si dissolve in un flusso, in uno stato emotivo passeggero.
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