Com'è strano in questi giorni riscoprire Etty Hillesum
Diari, contraddizoni e corporeità. Elisabetta Rasy in “Dio ci vuole felici” (HarperCollins) sovrappone la propria biografia di ragazza del ’68 italiano a quella della ragazza olandese morta nel 1943 ad Auschwitz
È strano, in questi giorni, riscoprire Etty Hillesum, la ventenne ebrea morta nel 1943 ad Auschwitz, che mentre il cerchio nazista si chiudeva sulla sua Olanda, e mentre qualcuno tentava ancora di emigrare in Palestina, sognava le terre russe della madre e sceglieva di non sottrarsi allo sterminio. L’occasione è un libro di Elisabetta Rasy pubblicato da HarperCollins, “Dio ci vuole felici. Etty Hillesum o della giovinezza”, dove accanto alla “protagonista” troviamo altre donne reali o inventate: Edith Stein e Anna Frank, Katherine Mansfield e Virginia Woolf, Simone Weil e Charlotte Salomon, la Tatiana di Puskin e la Micòl di Bassani. Ma soprattutto, a quella della ragazza olandese del ’40 la Rasy sovrappone la propria biografia di ragazza del ’68 italiano. E ci riesce, oltre che grazie alla mano leggera con cui suggerisce il confronto, anche grazie al vertiginoso senso di vicinanza che la Hillesum, nella vertiginosa lontananza della sua tragedia, continua a trasmetterci. Fino alla fine Etty rappresenta infatti la tipica vita allegra e inquieta di una donna che cerca “la sua forma”, descrivendo le intramontabili abitudini studentesche e le montagne russe della bulimia o del sesso, le battute pop e le lunghe discussioni telefoniche a un passo dal massacro: quel massacro che oggi, dall’Italia, rivediamo in simulacri virtuali, ma che pure torna a sfiorarci, in un pianeta ormai avvolto in un’unica rete.
A differenza della mistica cartesiana Weil, la Hillesum non rimuove il corpo, e spiega come ciò che sente “a sud del diaframma” influenza il suo pensiero. Il racconto della persecuzione non cancella in lei quello dell’intimità quotidiana, e viceversa. A molti intellettuali impegnati, la sua è sembrata passività spiritualistica; e specularmente, molti religiosi ne hanno fatto una filosofia del martirio. Ma a smentirli, dice la Rasy, è la miracolosa “normalità” hillesumiana. In maniera consapevole e pratica, Etty decide di condividere il “destino di massa” del suo popolo perché ritiene che sfuggirgli a qualunque prezzo significherebbe solo lasciarsi sostituire da un’altra vittima. Per costruire un mondo nuovo, riflette, bisogna accogliere l’esistenza nelle sue contraddizioni più terribili: altrimenti diventa insensata, e si resta in balia di tutto.
“Contraddittoria” la Hillesum appare persino nei lineamenti. E altrettanto lo è l’uomo larger than life, insieme seducente e ripugnante, che le fa da guida nella ricerca dell’integrità dell’anima: lo psicochirologo Spier, col quale la ragazza, trattenendo e insieme sprigionando un eros prepotente, ingaggia al primo appuntamento una lotta fisica da monelli. Fuori dalla famiglia, Etty si libera dal peso dell’eredità genitoriale – specie della madre, la cui angoscia di profuga si è trasformata nei figli in dolorose patologie psicosomatiche.
Solo nel campo di Westerbork, alle soglie della morte, gli Hillesum raggiungono una paradossale serenità. Tra quelle baracche, Etty spera ancora di tradurre in poesia ciò che ha compreso. Per descrivere l’incredibile, pensa al genere della fiaba. Ma intanto ne pratica uno opposto: la forma senza forma del diario, che come la lettera, osserva la Rasy, è storicamente femminile, perché esprime la “possibilità di conversazione quando la conversazione è impossibile”.
Nel diario Etty discute con interlocutori vicini e lontani, ma soprattutto con sé stessa: in un senso molto diverso rispetto a Rimbaud, sa che “Io è un altro”. Sente di ospitare un Dio debole, che ha bisogno di trovare salvezza nel cuore umano. Ed è questo spirito divino che la invita a distruggere in sé l’odio per cui, di solito, si crede di dover distruggere gli altri. Un proposito difficile, non soltanto nelle zone di guerra. Ma questa ventenne del 1940 – e del 2023 – ci ha rivelato che non è pura utopia.
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