una fogliata di libri
Quattro opere vere ai margini dell'entusiasmo immotivato
Siete lettori con un'idea diversa di letteratura? Ecco quattro romanzi non recenti, romanzi che se ne stanno ai margini dell’entusiasmo immotivato, del tutto incongrui rispetto alla lingua sprecapagine che impera
Prima un sacrosanto presupposto che spiacerà ai Custodi del Canone Afflittivo: ognuno legge quel che vuole, quando vuole, senza che gli debba piombare, sibilando, la lama di una paternale sull’osso del collo. E’ un diritto che dovrebbe essere riconosciuto da una qualche istituzione, dunque pensiamoci (ma pensiamoci senza stancarci troppo, pensiamoci senza esagerare, perché fai presto a dire istituzione, ma cosa istituisci? Anche se, in fondo, ormai non è che occorra far le cose per bene per essere presi in considerazione… Anzi, probabilmente andrebbe bene anche una delle molte che non contano nulla ma che sanno parlare col gergo stentoreo e tenorile delle uniche dichiarazioni d’intenti che ormai vengono prese sul serio, quelle che restano tali, e che permettono, alle suddette istituzioni canore, di prosperare sempre dalla parte giusta, la parte intonsa, iperuranica, gioiosamente priva di incombenze se non quelle del canto e del trillo).
Tornando a noi: certo, sì, ognuno legge quel che gli pare senza pena di scomunica, ma ogni tanto vien da pensare ai lettori italiani, o meglio, a quel sottoinsieme di cinque gatti che ancora reggono con un’idea diversa di letteratura: saranno mica, nel frattempo, diventati due? Perché va bene il gialletto sgangherato scritto in neolingua orecchiata, va bene il thrilleroide sul “frammento di papiro che può cambiare il mondo”, va bene l’ennesimo Ombelico nullanarrante (tutti lodatissimi urbi et orbi e fascettati, va da sé), ma chi pensa più a questi gatti sparpagliati che ormai sono attanagliati dal dubbio circa le proprie capacità di giudizio? Ecco: a quei lettori sono dedicate le prossime righe, righe in cui citeremo, senza logorrea e a loro beneficio, quattro romanzi non recenti, romanzi che se ne stanno ai margini dell’entusiasmo immotivato, del tutto incongrui rispetto alla lingua sprecapagine che impera. Opere oggi impubblicabili, perché opere.
Il primo è Mario Bonfantini col suo “Scomparso a Venezia”, 1972, la splendida storia di un uomo che, dopo un convegno d’affari, si abbandona a Venezia fino a farsene inghiottire – una Venezia diversa da sé stessa e da ogni racconto che ne è stato mai fatto.
Il secondo è “Il serpente” di Luigi Malerba, 1966, superbo romanzo di inconcludente felicità, divagazione e confessione inattendibile con pagine di ironia e arguzia rare (quando “giallo” non significa scrittura tirata via: memorabili le congetture su Baldasseroni, un collezionista di francobolli a proposito del quale la voce narrante costruisce incredibili arabeschi, per cui all’improvviso, da un uomo con l’hobby più noioso del mondo, emerge un profilo inquietante e potenzialmente criminale).
Terzo, “Le lettere da Capri”, 1954, capolavoro (vero) di Mario Soldati: tre narratori, molte crudeli verità, e quella capacità che ha solo la letteratura di entrare dentro gli esseri umani e rivoltarli come guanti – e quella capacità che aveva solo Soldati di essere terribilmente preciso e vicinissimo alla vita; altro non c’è, per uno scrittore, cui ambire.
Quarto, “L’airone” di Giorgio Bassani, 1968. La vicenda di Edgardo Limentani e della sua giornata di caccia, coronata dalla visione dell’airone che sarà una visione di sé stesso, un punto interrogativo all’alba. Memorabile il tratto con cui si racconta il paesaggio provinciale. Provinciale, sì: e ovviamente godiamocela, un’epoca in cui l’aggettivo non significava ancora bozzetteria, querimonia, agonia della letteratura.
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