Una fogliata di libri
Potere e progresso
La recensione del lobro di Daron Acemoglu e Simon Johnson edito da Il Saggiatore, 632 pp., 32 euro
Dopo il travolgente successo di "Perché le nazioni falliscon" e il seguito di "La strettoia", Daron Acemoglu prosegue – stavolta in coppia con Simon Johnson, suo collega al dipartimento di Economia del Mit – la sua esplorazione delle vie tortuose che possono condurre verso progresso e benessere o allontanarne.
La tesi del libro è semplice: “La prosperità generalizzata del passato non è stata merito di qualche guadagno automatico e garantito portato dal progresso tecnologico. Se si è affermata una prosperità diffusa è stato perché la direzione degli avanzamenti tecnologici e l’atteggiamento della società nei confronti della distribuzione dei guadagni si sono allontanati da impostazioni che servivano in primo luogo gli interessi di una ristretta élite”. La dimostrazione è, al solito, una cavalcata nei secoli, alla ricerca dei dati da cui nascono le sue riflessioni. Così, Acemoglu osserva che dall’antichità alla prima rivoluzione industriale le innovazioni hanno arricchito proprietari terrieri e industriali, mentre la vita dei contadini e degli operai proseguiva in condizioni al limite della miseria. Un cambiamento significativo si registra solo negli ultimi decenni dell’Ottocento e si prolunga fino agli anni Settanta del Novecento. La svolta è dovuta a diversi fattori: uno sviluppo tecnologico che produce macchinari che aumentano la produttività marginale dei lavoratori, così che, se determinate attività vengono meccanizzate, ne sorgono di nuove, e la domanda di manodopera cresce; una forte concorrenza, che spinge le imprese a offrire alti salari; il ruolo delle organizzazioni dei lavoratori, in grado di contrattare con i datori condizioni di lavoro migliori.
Negli ultimi decenni – osserva Acemoglu – queste condizioni sono venute meno. Seguendo la “dottrina Friedman”, che identifica l’utile delle aziende con il progresso per tutti, le grandi imprese del digitale hanno privilegiato le tecnologie che massimizzano i profitti a scapito di quelle che potrebbero favorire l’occupazione, e si è indebolito il ruolo delle rappresentanze sindacali e delle istituzioni democratiche. Di conseguenza, se vogliamo che il “treno della produttività” torni a correre, occorrono delle scelte – il termine è un leitmotiv del libro – politiche che indirizzino l’innovazione verso il bene pubblico; altrimenti, il destino che ci aspetta è il ritorno all’antico, una società divisa fra un’élite di privilegiati e una massa di diseredati. Una tesi – va da sé – che ha già suscitato un vivace dibattito.
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