Io resto re dei miei dolori
Philippe Forest, Fandango, 288 pp., 20 euro
Intanto una lezione. La lezione è questa: si può scrivere un romanzo a partire da una serie, dal particolare di una serie. Se quella serie è “The Crown” è probabile che quel romanzo possa diventare un buon romanzo. Ciò che ha scritto Philippe Forest è ottimo perché ha scritto, come succede a volte ai grandi, quasi sempre lo stesso libro. La storia è un pretesto che prende forma in modo eccentrico, originale e paradossale. Per essere un pretesto, cioè, è fin troppo presente. E’ tutto lì, nella storia, in ciò a cui la scena non lascia spazio. Winston Churchill ha ottant’anni, è al suo secondo mandato, il Parlamento inglese commissiona a un pittore che non verrà ricordato, Graham Sutherland, un ritratto dell’uomo più famoso d’occidente (dopo Hitler). Il libro è tutto qui, nell’incontro tra due uomini che si scoprono entrambi appassionati d’arte. Entrambi, come Philippe Forest, re dei propri dolori, al di là di tutto. Al di là di una carriera finita, quella del politico inglese, al di là della carriera del tutto trascurabile del pittore. Persino al di là della carriera di un premio Goncourt come Forest. Difficile non gettare l’autore nella scena, come un personaggio che accetta il gioco del silenzio sul lutto che accomuna i tre uomini, la morte di una figlia.
Dicevamo, non se ne parlerà mai. Il pretesto è abbastanza ingombrante da far capire che tutti quei discorsi tecnici sull’arte e tutti i convenevoli che la penna di Forest olia necessariamente, perché fin troppo aspri quando arrivano dal gigante della diplomazia e simmetricamente inadeguati quando arrivano dal pittore, non sono altro che un modo per non parlare della perdita. O meglio, per parlarne non parlandone. Senza dover analizzare e decostruire lo scranno che la vita dà al posto del trono che si sperava; piuttosto decostruendo l’arte, smantellando le formalità di una seduta pittorica come se Forest stesse dipingendo la scena in replay, sottraendo. I riferimenti dello scrittore sono il teatro e Shakespeare. Quindi un solo riferimento, poiché il teatro è Shakespeare. Tuttavia vale la pena di prestar fede all’ispirazione, allo stimolo iniziale e dire che, sì, forse Io resto re dei miei dolori è una pièce, ma allo stesso tempo l’episodio di una serie, l’ultimo di una stagione, quello leggermente più lungo, più disteso. Uno spin-off di “The Crown”, dove quell’uomo un tempo grande riconosce “il proprio volto nello specchio nel quale, tuttavia, nessuna immagine di lui resta”. Questo specchio è la letteratura.
Io resto re dei miei dolori
Philippe Forest
Fandango, 288 pp., 20 euro
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