La prigione
La recensione del libro di Georges Simenon, Adelphi, 170 pp., 18 euro
Il signor Poitaud, tornando dal lavoro in una piovosa sera parigina, si ritrova un poliziotto che lo aspetta davanti al portone. Sua moglie Jacqueline, che tutti chiamano Micetta perché “aveva l’aria di una gattina”, stranamente non è in casa. Strano, perché dovevano andare a una festa. Anche la pistola che tiene nel cassetto del comodino è sparita. Il poliziotto, senza dargli informazioni, gli chiede di andare con lui al Quai des Orfévres, a parlare con un vicecommissario. Da lì in poi, un evento che sconvolge la sua esistenza, segreti che vengono svelati e relazioni che devono essere rimesse sotto una nuova lente, costringono il trentaduenne Poitaud a superare una linea d’ombra che non sapeva nemmeno esistesse. Non è una linea d’ombra dell’età, come quella conradiana, “quella che ci avverte di dover lasciare alle spalle le ragioni della prima gioventù”, ma una linea d’ombra della comprensione del proprio posto nel mondo.
Le domande esistenziali, anche quelle più banali – “Sono felice? Sono innamorato?” – vengono fuori quando per la prima volta le pronuncia un vicecommissario di polizia. “Che cosa poteva sperare di capire quell’uomo, che non sapeva niente della loro vita, quando lui stesso non ci capiva niente?”. Troppo preso a vivere, Poitaud non si è mai analizzato. Dopotutto ha successo, ha un appartamento con vista su Notre Dame e una Jaguar per raggiungere la casa di campagna, ha sempre cercato di vivere la vita all’opposto dei suoi genitori piccoloborghesi, della madre preoccupata che gli chiedeva se si sarebbe mai trovato un lavoro vero (“Uno di quelli senza glamour”, direbbero i Cani). E poi è sempre stato uno che non ha mai avuto paura a farsi dei nemici, di apparire esuberante, è uno che chiama tutti “cocco” o “cocca”, che non cena mai a casa e conosce tutti i baristi del quartiere, che va avanti a sigarette e scotch doppi, un uomo che molti conoscono. Ma di colpo, deve un attimo guardarsi dentro, e cosa succede se dentro non c’è niente?
La prigione, (traduzione di S. Mambrini), uno dei romanzi “duri” di Simenon – seppur ci si trovi nelle stesse stanze sul Quai frequentate da Maigret – è un’opera della maturità, scritta nel 1967 quando viveva già nella sua fortezza svizzera. Ed è una delle opere dove i suoi vizi casanoviani vengono meglio rappresentati. Anche circondato dalla tragedia, il protagonista non riesce a non sedurre le cameriere e le ballerine che incontra. “‘Ti spiace allacciarlo?’, gli chiese allungando verso di lui le due alette del reggiseno. Lo stesso gesto di Micetta, di tutte le altre. Come fanno le donne quando sono da sole?”.
La prigione
Georges Simenon,
Adelphi, 170 pp., 18 euro
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