UNA FOGLIATA DI LIBRI
Stranieri a noi stessi
La recensione del libro di Rachel Aviv, edito da Iperborea, 288 pp., 19 euro
A volte cerchiamo di ostentare versioni edulcorate di noi stessi e ci sforziamo a contenere le nostre moltitudini. Ma non è mai facile, perché ci dimentichiamo che siamo esseri umani, vasti, fragili, imperfetti, e accade che il corpo e la mente, dove cerchiamo di arginare le nostre emozioni, manifestano versioni altre di noi. Quella linea che abbiamo tracciato tra noi e il mondo svanisce e quell’insieme di cellule e impulsi nervosi che ci mettono in relazione con l’esterno, ci tradiscono. Diventiamo scomodi a noi stessi. O meglio, stranieri.
A indagare il terreno di questo innesto che salta e trasformarlo in un manifesto di vita vera, è Rachel Aviv, giornalista del New Yorker, nel suo libro Stranieri a noi stessi (Iperborea). Un memoir scandito in sei vite che racconta la sofferenza della malattia mentale, la mancanza di una grammatica emotiva e sociale per definirne le coordinate, la speranza di un percorso di cura. Protagonista insieme a loro, lo stigma sociale che, come scrive Aviv, “è un problema relativo al fatto di non avere un linguaggio esistenziale ordinario a disposizione per parlare della sofferenza mentale”. Eppure, l’autrice svela la possibilità di un vocabolario composito, potente e mai tragico, per dare una voce a queste storie, che chiedono – e meritano – ascolto. Il libro dona uno sguardo nuovo al rapporto dell’uomo con la malattia e con l’identità in relazione alla diagnosi, quell’etichetta che al tempo stesso distrugge e definisce: “Il divario tra le periferie della psiche e uno scenario che potremmo definire normale è un divario permeabile, un fatto che trovo inquietante e promettente allo stesso tempo.
È stupefacente accorgersi di quanto poco basterebbe per vivere, o per sfiorare, vite radicalmente diverse”. Aviv parla al plurale, incontra storie che diventano universali e scava a fondo anche della sua: lei, che a soli sei anni viene ricoverata per anoressia; Ray, che è un medico caduto in depressione e non si sente mai all’altezza; Bapu, che sceglie la devozione e il compromesso di una diagnosi di schizofrenia per fuggire al suo destino; Naomi, che voleva solo essere considerata nelle sue cicatrici; Laura, bipolare, che era intrappolata come nella vita di una sconosciuta; Hava, che si sentiva straniera a sé stessa. Questa lettura è un inno all’umanità in tutte le sue fragilità, che rivendica il diritto di trovare le parole per essere riconosciuti e raccontati. Soprattutto: il diritto di essere visti, di esistere.