Una fogliata di libri
Il tema di Claudio Piersanti e l'analisi della condizione umana
L'autore è una figura costante nella narrativa italiana da quarant'anni e anche nel suo nuovo romanzo, "Ogni rancore è sepolto" (Rizzoli), sfida le convenzioni narrative contemporanee con una prosa che abbraccia l'attualità
Da quarant’anni, Claudio Piersanti è una presenza costante e discreta nella narrativa italiana. Nel Ventunesimo secolo, però, gli storicizzatori ipnotizzati dallo Spirito del Tempo non sembrano più intenzionati a dedicargli una vera attenzione. Al massimo, onorano in lui il rappresentante dignitoso di una letteratura un po’ coperta di polvere. Ma è un equivoco. Piersanti è molto più coraggioso, e nella sua inattualità più attuale, dei troppi narratori da vetrina che appiccicano alle loro trame i fatti clamorosi di stagione, e che trasformano lo stile in una stilizzazione urlata. A vent’anni, con Tondelli e Palandri, Piersanti si è trovato in mezzo al movimento del ’77: ultima fiammata, carnevalesca e cupa, di un decennio di contestazione che si chiudeva con una liquidazione degli scopi iniziali e con il rifiuto del futuro. Seguì il cosiddetto riflusso, cioè una storia senza storia di individui soli. Memore della lezione di Bilenchi, di questo destino “vuoto” l’autore di “Luisa e il silenzio” si è fatto allora il poeta. I personaggi di Piersanti hanno una inesauribile fame di solitudine e immobilità, da cui si sviluppa presto una malattia organica – l’ascesi perfetta del non essere.
Il tema torna anche nel recente romanzo “Ogni rancore è spento” (Rizzoli). Qui c’è un quasi sessantenne che gioca a sentirsi morto, che si confina in un limbo anestetico sfruttando la sua “forza del disamore”; e c’è, ancora, il motivo dei cambiamenti autentici che non scaturiscono mai da un progetto, ma solo da occasioni imprevedibili. In una media città del nord, dopo un incontro casuale, il medico Lorenzo Righi ricomincia a frequentare l’amico Paolo, un imprenditore con cui in gioventù ha condiviso le fidanzate e una violenza iconoclasta che di contestatorio aveva appena l’involucro. Entrambi si portano dietro una rabbia antica, senza ragioni chiare né fedi in cui incanalarla; ma Lorenzo è diventato un ipocondriaco, Paolo invece un Lucignolo avventuroso. La medicina ha imposto a Righi la convinzione che tutto è transeunte (anche la scienza) e insieme un’ansia di controllo totale. Però anche la routine lo mette a disagio, perché il suo bisogno di distruzione non vi trova più sfogo. Ecco allora che questo bisogno inizia a essere soddisfatto dalle lunghe ore d’inerzia passate nella villa dell’amico sotto l’effetto di una droga. La droga è una finzione di oriente: offre un’intimità senza attriti, in cui ogni frase acquista un sapore di arresa saggezza. Il percorso che i personaggi di Piersanti devono compiere consiste sempre nel tentativo di trasformare questo tipo di calma artificiale in una calma giusta, piena, umana. In “Ogni rancore è spento”, la metamorfosi avviene grazie all’arrivo di una sorellastra sconosciuta e di un nuovo amore. L’adolescente Rosalba e la collega Gloria restituiscono a Lorenzo la percezione delle incoerenze e delle ossessioni di cui è tramata la sua vita “di là dal vetro”, regalandogli un benessere intermittente e mai netto, ma credibile. Finché arriva la pandemia del 2020, e come è successo a molti ipocondriaci, Lorenzo di colpo si tranquillizza: allora i simulacri di rapporti diventano rapporti stabili. Piersanti rappresenta senza alibi culturalistici un ambiente mediocre, “normale”, magari col rischio di riuscire convenzionale e generico. Ma sono i ceti e le figure che descrive a conoscere il mondo genericamente.
È il nostro mondo, semicolto e anonimo: di cui ci vergogniamo, e che pure sentiamo il bisogno di veder rispecchiato ogni tanto da certi narratori “silenziosi”, disposti a spogliarsi delle brillantezze appariscenti. Non a caso, Piersanti ha collaborato con Carlo Mazzacurati: uno dei pochi registi che, negli ultimi decenni, abbiano provato a riprendere la vita quotidiana e comune degli italiani.
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