Una fogliata di libri
Fenomenologia dei melodrammi, mitomanie e parodie
Peter Brooks esplora il genere del melodramma come un sistema fantastico basato su intrighi e dualità morali. Questo genere teatrale, emerso nel XIX secolo, ha influenzato romanzi, cinema e cultura contemporanea
Il critico americano Peter Brooks si è molto occupato del ruolo che nella cultura moderna hanno le trame. I suoi stessi saggi teorizzano raccontando; e il racconto si fonda sui modelli di Balzac e di Freud. Modelli, dunque, di “detection” – di quel paradigma indiziario su cui negli ultimi decenni si sono spese innumerevoli riflessioni, quasi per ritrovare, al tramonto delle grandi narrazioni ideologiche, le radici profonde che le avevano generate, e quindi una fede nel senso della vita che ci appare perduta. Di Brooks, il Saggiatore ripropone ora un libro del 1976, ma attualissimo e ricco di analisi stimolanti: “L’immaginazione melodrammatica”. Con uno stile affabile e un atteggiamento curioso in piena sintonia con quelli dell’autore, Mariolina Bongiovanni Bertini riassume nella prefazione il sugo del discorso.
Per “melodramma”, chiarisce subito, Brooks non intende l’opera lirica, bensì “un genere teatrale in prosa, con accompagnamento orchestrale, che conquista il pubblico popolare parigino nei primi decenni del XIX secolo per diffondersi poi con successo in tutta Europa”, ispirando il romanzo d’appendice e non solo (Brooks lo riconosce in Balzac, Hugo, Dostoevskij, perfino in James), il cinema americano degli anni Cinquanta, e infine gli intrecci da romance tornati al centro dell’immaginario a fine XX secolo. Più che di una forma precisa si tratta di un “sistema fantastico” fondato sugli intrighi, sul gotico, sull’iperbole, e soprattutto su uno scontro manicheo tra il Male dei traditori e il Bene della virtù calunniata. Questi caratteri si fissano nelle opere di Pixérécourt subito dopo la Rivoluzione. Infatti il melodramma rappresenta la fine estetica dell’ancien régime neoclassico, con la liberalizzazione delle produzioni teatrali concepite per un pubblico meno elitario, e con l’affermarsi di un compromesso “tragicomico” tra i vecchi generi alti e quelli bassi (non a caso, l’Ottocento è il secolo in cui il teatro in senso proprio cede alla teatralità romanzesca). Qui il Bene si ristabilisce attraverso la conquista di una Verità occulta, surrogato etico di una sacralità perduta: ci troviamo, insomma, di fronte a un’allegoria medievale senza chiave certa. Al suo posto s’impone il mito dell’assoluta sincerità soggettiva, l’“espressionismo dell’immaginazione morale” di un essere umano che non tiene ad analizzarsi né ad agire ma soltanto a esprimersi. Come si vede, non siamo poi così lontani dalla nostra civiltà dei social, del vittimismo narcisista, e della politica che dopo avere sostituito la religione è rimpiazzata a sua volta da una comunicazione in cui si fondono perversamente pubblico e privato. Ed ecco il punto.
Gli esiti estremi di questo romanticismo danno ragione a una tesi complementare a quella pro-mélo di Brooks: la tesi di René Girard, che in tutto ciò vede una “menzogna”, ovvero una maniera autoassolutoria di leggere il mondo. Senza un distanziamento critico o rituale, ci hanno ripetuto molti teorici del teatro e della letteratura – da Brecht a Steiner a Chiaromonte – può darsi davvero una qualche verità? Liberare melodrammaticamente il represso porta alla luce l’Autentico, o non piuttosto una mera fantasticheria mitomaniaca? “Nella profondità di noi stessi, le nostre buie mitologie non dividono affatto la loro essenza con una sincerità primitiva, ma al contrario, con un intimo spirito di malafede e di frode. I meccanismi che ci guidano sono essenzialmente falsi, e la loro espressione diretta, se potesse esistere, non sarebbe che una terribile parodia”, scriveva Cesare Garboli negli anni in cui Brooks lavorava all’“Immaginazione melodrammatica”, riferendosi a quei melodrammi sintetici che sono i fumetti.
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