Smara. Taccuini di viaggio
La recensione del libro di Michel Vieuchange, Settecolori 280 pp., 25 euro
C’è un apologo buddista intitolato “La città fantasma”. Un gruppo di persone ormai stremate dalla fatica del viaggio sta per capitolare ma la guida fa apparire davanti a loro una città in lontananza per rinfrancare la spossatezza fisica e psicologica in cui sono caduti dopo giorni di marcia. In Smara, succede l’esatto contrario. La città attesa è sempre procrastinata. E la guida di questo viaggio nel deserto è decisamente meno illuminata: beve per primo l’acqua e spesso si riserva le condizioni migliori di viaggio e sosta. Per fare il paio con il racconto da cui sono partito, Antoine de Meaux, che ha scritto e documentato filmicamente questo percorso, intitola la sua introduzione “Smara, città delle nostre illusioni...” e ammette “La Smara raggiunta da Michel Vieuchange il 1° novembre 1930 è la più povera delle conquiste”. E povero (e doloroso) è anche il viaggio ma il mito della città-oasi nel deserto marocchino sembra giustificare il racconto di Michel (e i buoni uffici del fratello Jean per cercare di dare a questi carnets visibilità).
Smara: carnets de route de Michel Vieuchange, titolo originale dell’opera qui tradotta da Leopoldo Carra, racconta la vicenda di un viaggio nel deserto in maniera pedissequa anche se mai vuota: “Ieri, partenza verso le 5. Marcia fino alle 8. Pianura. Sabbia. Fatica come piacere. I passi: sforzi bruschi per sollevarsi – e si inciampa su un sasso. Continuare. Andare avanti. [Quello che conta:] non la stanchezza, ma la strada fatta. Tra cinque giorni Smara”.
L’andare verso è fatto di piaghe non cicatrizzate e dolori, travestimenti (da donna berbera) per scampare agli agguati.
Ma c’è una ragione altra dietro questo proseguire nonostante tutto e Michel la annota in preghiera: “Perché sei tu che bisogna raggiungere, tu, il luogo che, calcato, dà ai passi che vi sono diretti un valore duraturo. Tu sola conferisci allo sforzo – giacché noi possiamo imprimere il nostro nome sulla tua terra – la sua autorità, il suo profilo definitivo, lo fai passare dall’ancora informe alla forma, bella per ognuno di noi”. La meta qui non è il mezzo ma il fine (“Penso a quanto è bella questa impresa di Smara (…) al peso che darà alle nostre vite”), la soddisfazione dell’arrivo.
Cosa sarebbe dunque successo se Michel Vieuchange non fosse morto a Smara meno di un mese dopo ma due giorni prima dell’arrivo? E, poi, possiamo dire che Smara è la cronaca di un martirio rituale per via esplorativa, celebrato per via narrativo-filosofica?
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