Konjic, Bosnia e Herzegovina, settembre 2005 (foto Vittorio Daniele/NurPhoto) 

Stordire i ricordi che si fanno vivi. Lettera dal solito bar

Marina Corradi

Il mio amico bosniaco al bar cinese ha un’aria cupa, e alle otto un bicchierino di grappa davanti

Oggi piove e fa freddo. Non butta bene. Il mio amico bosniaco al bar cinese ha un’aria cupa, e alle otto un bicchierino di grappa davanti.


Che faccia: non è così vecchio, ma le rughe gli incidono come cicatrici la pelle. D. ha combattuto per tre anni per la Bosnia. Non ne parla volentieri. Ma stamattina mi siedo al suo tavolo a bere il caffè, e forse gli fa piacere discorrere con qualcuno. O forse è la grappa, che allenta l’imperativo di tacere.


Sulla tv del bar scorrono le immagini del Donbass. D. guarda e china la testa. Un altro sorso di grappa. “Ma tu – gli domando – cosa facevi nell’Esercito?” “Carrista”, risponde, laconico. “Guidavi i carri armati?”, domando incredula. Poi gli guardo le mani, larghe, due badili. Mani da carro armato. “Ero anche addetto alla mitragliatrice”, aggiunge a voce bassa, guardando oltre la vetrina, come molto più lontano. “Sparava colpi da 128 millimetri”. (Chissà quale forza, penso, per tenere una mitragliatrice, mentre spara a raffica).


“Le armi erano tutte di contrabbando. Venivano dalla Corea, dal Sudamerica, da ogni angolo del mondo”. Si accorge però di stare raccontando troppo. “Non voglio parlare”, ripete. Eppure premono ostinati i ricordi, i rumori, le facce, come una folla impaziente che si accalchi a una porta stretta.


“All’inizio – riprende controvoglia D. – quando vedevo i feriti, i mutilati, provavo pena. Dopo sei mesi passavo con il mio carro, e non facevo più caso ai morti”.

  
D. è tornato a casa nel ’95. Nel ’97 da Spalato è arrivato ad Ancona: quanto bella era l’Italia, florida, in pace. Lui si piazzava agli incroci di Milano e quando passava un furgone di operai si offriva come manovale. Oggi ha la cittadinanza. Dal portafogli estrae, fiero, la carta d’identità. Un pensionato italiano.

 
Non come gli altri però: quelle rughe, le mani da gigante. I silenzi, quando di colpo serra la porta ai ricordi: e gli occhi azzurri, buoni, paiono farsi più scuri.
Non si può aprire quella porta: i ricordi scivolano fuori, vivi. Non devono passare. Grappa, alle otto, per cercare di stordirli.