una fogliata di libri
Isaak Babel' ha salvato un mondo, ma non sé stesso
La sua prosa sonora e malinconica reinventa il mondo e lo fa più vero del vero attraverso il falso. Una parola dopo l’altra, ha fatto quel che ogni vero scrittore deve fare: non collezionare francobolli ma raccontare l’irraccontabile. Grazie a lui Odessa è diventata Odessa
“In via de Ribas / angolo Richelieu /alle sei del pomeriggio / alla nostra nonnina / sei rapinatori rubarono l’onore / Ora la nonnina angosciata / ha perso sonno e pace / Tiene aperte le porte / ma i banditi / non si fanno più vedere…”.
Canzonetta d’angiporto della vecchia Odessa che intoniamo, qui, per festeggiare cento anni dall’inizio dell’attività di scrittore di Isaak Babel’, per lo meno attenendoci alle date dichiarate dall’autore stesso nel testo “Autobiografia”.
“Ogni giovane di Odessa sogna di fare il mozzo su un transatlantico”, scriveva in un articolo, “e di mettersi in viaggio verso terre irraggiungibili, dai nomi sonori e malinconici”. Sonora e malinconica anche la prosa di Babel’, che reinventa il mondo e lo fa più vero del vero attraverso il falso. “Al di fuori delle sue pagine”, scriveva Harold Bloom mentre lo piazzava tra i geni indiscussi dell’umanità, “non ho mai visto uomini con completi arancioni e panciotti color lampone o donne con finanziere scarlatte e stivali maschili”. Si potrebbe quindi parlare di un esotico babeliano? Mai e poi mai, pena correre il rischio di essere fraintesi: il mondo di Babel’ non è un cartonato da agenzia di viaggio, oleografico e colorizzato. Il genio di Babel’ risiede certo nel suo estro immaginativo, ma la questione non è esclusivamente stilistica. Babel’ ha fatto quel che ogni vero scrittore deve fare: non collezionare francobolli ma raccontare l’irraccontabile – “i grassi e gioviali ebrei del sud che gorgogliano come vino a buon mercato”.
E una città intera, Odessa, artefatta come Pietroburgo, con la sua verità sconosciuta, gli anfratti sontuosamente lerci e la personalità gaia, parigina. Periferia centrale e terra promessa che attirava aristocratici e sbandati, contrabbandieri e falsari, puttane e gente di teatro, di Opera e di salotto letterario, Odessa diventa Odessa attraverso Babel’, che ne ravvivò l’eccezionalità, refrattaria ai dettami del regime sovietico secondo il quale la Russia era una e “la scuola meridionale” non esisteva.
Invece eccola: splendidi terroni gaudenti e disperati, tutti in strada al minimo raggio di sole, a declamare poesia o vendetta, a berciare tra tinozze, pesci da pulire, grida e panni stesi, sempre sé stessi con ostinazione, fino alla morte, implicitamente sovversivi e, dunque, inammissibili, destinati a non esistere, destinati allo sterminio. Gli odessiti erano Odessa: italiani, polacchi, moldavi, ucraini, lituani, ebrei. Babel’, poi, non era semplicemente di Odessa, ma della Moldavanka, cioé un’Odessa dentro Odessa, una pozzanghera d’oro e pattume popolata di tagliagole e ricettatori, mangiatori e mangiati, tutti tenori del suo inno a quell’epoca che stava declinando insieme alla sua lingua, una lingua smagliante e pastosa, suono di un mondo a metà strada tra le stelle e la sifilide.
E dire che tutta questa prosa furiosa e scintillante – i “Racconti di Odessa” sono un inno alla gioia dell’impeto lirico – Babel’ la creava a fatica, lentamente. “Scrivo non a pagine, ma una parola dopo l’altra,” diceva. “Senza la scrittura sarei un mozzicone”. E così, una parola dopo l’altra, Babel’ ha salvato un mondo, ma non sé stesso. Amava la Francia e gli ippodromi, parlava di sesso senza intrallazzare con le poeticherie, era divorato da sentimenti umanissimi.
Il 27 gennaio 1940 venne fucilato all’una di notte su decisione di V. V. Ul’rich, psicopatico di rango che si vantava di aver comminato almeno 30 mila sentenze capitali.
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