Una fogliata di libri
T.
La recensione del libro di Chetna Maroo edito da Adelphi (148 pp., 18 euro)
I movimenti su un campo da squash sono diversi da ogni altro movimento. Per andare dalla T a fondocampo devi compiere una torsione, un movimento deciso che si prolunga quasi per inerzia. Dopo che colpisci la palla, l’impeto ti proietta di nuovo in avanti e non ti conviene arrivare in ritardo né in anticipo. Al tempo stesso, non devi preoccuparti di arrivare in ritardo o in anticipo, perché la preoccupazione ti fa solo atterrare sul piede sbagliato”. L’esordio di Chetna Maroo comincia su un campo da squash. La narratrice undicenne Gopi e le sue sorelle poco più grandi giocano “da quando eravamo abbastanza grandi per impugnare una racchetta”. Ritmo e disciplina, necessari soprattutto da quando la madre è morta. “Vorrei che vi appassionaste a qualcosa che potrete fare per tutta la vita”, diceva il padre quando hanno iniziato a giocare. Adesso, con la mamma che non c’è più, per la narratrice il campo da squash diventa, senza patologica ossessività, il luogo automatico dove stare, non sa nemmeno lei se è il posto dove si sente meglio al mondo, ma è ormai parte della sua nuova routine. Quando gli chiedono: perché giochi? Lei risponde: non lo so.
Tradotto in italiano da Gioia Guerzoni, T. affronta il tema del lutto senza cadere nel formulaico, ci sono una pacatezza e molti non detti che rendono tutto piacevolmente placido. Anche l’atmosfera a momenti quasi da ghost story, la tristezza del padre, e poi il rapporto con un altro ragazzo balbuziente che gioca a squash, non sono mai trattati con fastidiosi sbrodolamenti sentimentalistici. Ogni frase sembra pesata, ogni scena, ogni dialogo escono fuori creando un ritmo aggraziato. Gopi pensa e vede il mondo intorno a sé e non sa sempre se quello che vede sono dei segni o semplicemente la vita. Anche l’elemento razzista – che oggi va tanto nella letteratura postcoloniale – resta qui discreto. C’è, ma non viene urlato. Come del resto nulla in questa prosa pacata. Gli elementi di quotidianità indiana – il Diwali, le lezioni di gujarati, i piatti, il laddu, lo shaak di patate, il puri e i gulab ja-mun nei piattini d’argento – sono lì senza diventare manifesti teorici o bandiere di folklore.
Maroo, nata in Kenya da genitori indiani e cresciuta in Inghilterra, non sta scrivendo un memoir, non sta facendo autofiction, anche se dal tema potrebbe sembrarlo. In un’intervista racconta che tutto è partito dal rumore del campo da squash, dall’immagine di tre ragazze nel campo, davanti alla parete di vetro, con un padre che le guardava dall’altro dando indicazioni sulle mosse da fare.
Il libro è arrivato in finale al Booker e ha vinto il Plimpton Prize.
Chetna Maroo
T.
Adelphi, 148 pp., 18 euro
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