Una fogliata di libri

Quello spirito vampiresco di Franz Kafka

Matteo Marchesini

Le influenze kafkiane e felliniane nel XX secolo che hanno trasformato il modo in cui percepiamo il mondo attraverso atmosfere oniriche e surrealiste: angosce, comunicazioni irraggiungibili e metamorfosi simboliche

Nei luoghi comuni, o perfino nei fraintendimenti diffusi, affiora un pezzo di verità. Così l’inflazione degli aggettivi “kafkiano” e “felliniano” testimonia la radicale metamorfosi che due artisti hanno portato nel nostro modo di vedere il mondo. Non per caso, sia lo scrittore sia il regista evocano subito atmosfere oniriche. Oltre alle violenze di massa, il XX secolo ha imposto infatti i sogni di massa: e tra le due cose c’è un rapporto, se i regimi totalitari hanno provato a creare la civiltà che i loro capi avevano sognato. Sembra che nei climi novecenteschi sia dato vivere solo in un contesto irreale, troppo rarefatto o al contrario derisoriamente sfarzoso rispetto alla cosiddetta “realtà”: è come se tutto fosse diventato un tribunale o un bordello. Kafka rappresenta l’incubo nella forma del referto burocratico; in Fellini, invece, dalle scenette di vita quotidiana fiorisce una surrealtà che dietro il trucco clownesco rivela uno squallore da fine festa. Il punto d’incontro tra i due immaginari sta forse nel teatro d’Oklahoma del kafkiano “America”; e naturalmente nel sesso animalesco o numinoso, mai a misura d’uomo.
 

Se il 2023 è stato un anno felliniano, nel 2024 si celebra il centenario della morte di Kafka. Per l’occasione, riporto qui tre citazioni che riguardano un’angoscia onirico-tecnologica tipica dell’autore, del suo tempo e del nostro. La prima viene dalle discutibili memorie di Gustav Janouch; ma la visione che vi è espressa, e che si riferisce proprio al cinema, è di sicuro kafkiana. Al giovane amico, lo scrittore avrebbe detto che era disturbato dallo schermo, davanti al quale “Non è lo sguardo che s’impossessa delle immagini, sono loro a impossessarsi dello sguardo”, indebolendo l’immaginazione visiva del singolo. Il secondo brano lo traggo da una lettera di Franz a Milena Jesenská. La relazione epistolare vi viene definita “un contatto con fantasmi”, del mittente non meno che del destinatario. “A una creatura umana distante si può pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane”, riflette Kafka. Ogni contatto indiretto produce solo irrealtà, nutre i demoni. L’umanità li combatte con ferrovia, automobili, aeroplano, telegrafo, telefono, ma senza esito: “La parte avversa è molto più calma e più forte (…) Gli spiriti non moriranno di fame, ma noi periremo”. C’è qui il tema per eccellenza kafkiano, così comune nei sogni: l’inseguimento di un prossimo irraggiungibile, o di una irraggiungibile comunicazione chiara, autentica, priva di equivoci. Lo riassume con grazia incantevole la parabola “Un messaggio dell’imperatore”. Servendosi di una struggente seconda persona, il narratore spiega che il sovrano avrebbe inviato “a te”, “umilissimo suddito”, “un messaggio dal suo letto di morte”. Ma il messaggero, pur vigoroso e solerte, per recapitarlo deve fendere moltitudini enormi, oltrepassare infinite stanze o città. Perciò dal palazzo imperiale nessuno può uscire fuori sul serio: “Tu, però, stai alla tua finestra e lo sogni, quando scende la sera”.
 

Opposta a questo vano inseguimento è in Kafka la rapidità con cui un giudizio simbolico si realizza nell’esecuzione letterale, come esemplarmente accade nella “Condanna”. Una condanna dovuta al fatto che Kafka pretende e insieme elude il “contatto” intimo: ne cerca le seduzioni per trovare l’energia indispensabile all’opera, ma poi se ne disfa perché non lo tollera fuori dalla pagina. Lui stesso è dunque uno spirito vampiresco: e lo dimostra il fidanzamento con Felice Bauer. Alla fine, gli resta solo la tana in cui scrivere. Lo fa di notte, esaminando con distacco i sogni, come Proust; e come Proust obbedisce a una necessità da cui è escluso qualunque arbitrio, qualunque sopruso del talento soggettivo che in quegli anni trionfa nell’“Ulisse”.

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