Una fogliata di libri

150 acri

Livia Chiriatti

La recensione del libro di Melinda Moustakis, edito da Edizioni Atlantide (350 pp., 19 euro)

Gli Stati Uniti sono diventati gli Stati Uniti anche espandendosi a ovest e a nord: ci si poteva appropriare di un terreno vuoto, considerato terra di nessuno (a spese di chi ci abitava da sempre) e richiedere allo stato l’atto di proprietà. L’insediamento, homestead, così si chiama, fa parte della storia familiare di moltissimi americani, tra cui Melinda Moustakis, che nel suo esordio 150 acri (traduzione di Ilaria Oddenino e Marco Bianco) racconta di un insediamento in Alaska, di una migrazione nelle terre selvagge. È il 1956, Lawrence è arrivato ad Anchorage con un bus e un piano: rilevare il suo pezzo di terra, costruirsi una famiglia e una vita. Ha avviato le pratiche per l’insediamento, un lotto da rendere suo, dove tirarsi su una casa e coltivare.
 

Al pub incrocia lo sguardo di Marie, in visita alla sorella e determinata a trovarsi un uomo e a non fare ritorno a casa, in Texas. Lui vede una donna capace di sopravvivere all’inverno, lei la terra e un’opportunità. Dopo pochi giorni si sposano e si trasferiscono nell’insediamento, tanto isolato che devono muoversi con un mezzo militare per farsi strada nel ghiaccio e nel bosco. Vivono un anno nel bus, ogni giorno cibo in scatola e farina d’avena, trascinandosi dal lago l’acqua da bollire, con la pistola per proteggersi dai grizzly. Quasi soli al mondo, iniziano a conoscersi, e Moustakis a far entrare nell’isolamento dei personaggi. Lawrence, imperscrutabile, si aliena nel lavoro, rifiuta Marie. Lei si adatta alla severità di lui e alla durezza delle condizioni con cruda fisicità – mangia il fango e il cuore crudo di un gallo, porta avanti gravidanze faticose. La storia e la prosa incedono un mese alla volta seguendo il tempo delle stagioni, il ritmo di questa natura magnifica e durissima, nello stesso modo in cui devono farlo i personaggi, che ogni giorno lottano per sopravvivere al freddo glaciale, alla fame, ai predatori, ma soprattutto a loro stessi, all’amore e alla vulnerabilità.
 

La natura è l’ostacolo e il motore: “Il Pioner’s peek mi fa sentire piccola […], ma mi fa venire ancora più voglia di guadagnarmi il diritto di stare qui”, dice Marie della montagna che sovrasta quelle terre, tanto remote e sconosciute che per nominarle si deve attingere alla sapienza dei nativi, custodi della cultura athabaska. Moustakis dipinge con lirismo e tranquillità una bellezza incomprensibile e violenta, l’aurora boreale tremolante e la carcassa dell’alce sbranata dai lupi. Con una voce fresca ci fa frequentare le terre estreme (longevo mito letterario, basti pensare all’ultima stagione di “True detective”), ma soprattutto mette in scena la vera avventura: riuscire a incontrarsi oltre le proprie sconfinate solitudini.

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