Una fogliata di libri
Un romanzo di domande dal passato e di lingua degli affetti
"Autobiografia dei miei cani" (Feltrinelli, 205 pp.,18 euro) è il nuovo libro di Sandra Petrignani che vuole riaffermare la centralità della letteratura con l'intento di fondare una nuova grammatica per leggere il presente
“Scrivere è tornare a casa”. Lo diceva Anna Maria Ortese e lo dice Sandra Petrignani con “Autobiografia dei miei cani” (Feltrinelli, 205 pp., 18 euro). È il suo nuovo romanzo, un romanzo che temeva, che “è stato fermo due anni”, ma poi eccolo qui. Ha trovato casa in Gramma, croccante collana che Feltrinelli lancia come una scialuppa di salvataggio contro il frastuono e la scrittura debole per riaffermare la centralità forte della letteratura, un gesto che, tra i tanti compiti di cui si fa lietamente carico, annovera anche quello di “fondare una grammatica per leggere il presente”.
Si comincia da Eshkol Nevo e i racconti di “Legami”, omaggiando nell’autore il contributo degli scrittori israeliani “alla creazione e alla reinvenzione di una lingua come l’ebraico, che nel passato era patrimonio esclusivo dei dotti”.
E si arriva ai cani di Petrignani. Il titolo non deve depistare, perché ci sono certamente i cani tra queste pagine, mica pochi, e tutti diversi (ci sono anche un cane-comparsa e un setter col pedigree suo successore), ma c’è anche altro. Ci sono una gatta che si chiama Topazia, un figlio che nasce e un uomo che muore. Un amore infantile per Bobby Solo e i furti delle nespole. Una festa con un prosciutto e le apparizioni di Gesù dietro le tende. Storie d’amore. E soprattutto c’è una lingua: la lingua degli affetti, il gergo delle cose, il lessico perduto che resta per sempre con noi. I nomi che ci consegnano il tempo. La tizia che vive di sotto e si chiama Miriam, nome esotico meno noioso della verità. La casa dei Cabianca. La madrina Frangipane con cagnetto abbaiante. Un cognome che fa Wapner. E il comprensorio boscoso tra il Po e il Trebbia detto “la Pertite”, candidato numero uno alla cancellatura se solo “potessimo ricopiare in bella il passato” (intanto, invidiandola, si legge e si pensa: ma che razza di fortuna ha avuto Petrignani? Quanti nomi, quanti trilli – lasciamo al lettore la scoperta di Ciumbalabei).
Ci sono giornate d’infanzia e sole di giardini, giochi e villini che ci hanno visti felici e già consci, senza le parole per dirlo, che nulla sarà più come prima, nemmeno tornarci anni dopo: i nuovi padroni di casa ti guardano storto e ti dicono che no, non si può, non potrebbe ripassare in un momento più adatto? Certo, ma chi torna davvero? Esistono momenti adatti per tornare al passato?
Questo romanzo di cani che “camminano nelle ombre col sole alle spalle” eppure non sanno la morte – romanzo di cani con cui trotterellare a Rione Monti e di cui dubitare di essere le padrone – è anche un romanzo di domande che arrivano dal passato, da quelle terse luci pomeridiane di un tempo che era nostro ma poi scompare.
E’ tutto vero, tutto reinventato, tutto falso come è falso ciò a cui la letteratura ci chiede di credere mentre lo plasma.
Sandra Petrignani lo sa e ci racconta le case precedenti, i traslochi, il nuoto, il pianto mentre sei nell’acqua perché tutto torna e non si scappa – e la memoria sovrappone il volto di John Fitzgerald Kennedy a quello di Che Guevara, e quello dei cani Guapa e Lenin – mentre, pagina dopo pagina, prende forma questa vita raccontata e “il passato irrompe nel presente, un’altra piega della vita, un’età lontana, persone scomparse”.
E i primi anni Settanta, quando – dice di sé Petrignani – “non facevo che straripare. E i rapporti profondi sembravo stabilirli solo coi cani”.
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