Cose da fare per farsi del male

Carlo Crosato

La recensione del libro di Michele Orti Manara, edito da Perrone, 150 pp., 16 euro

Una ricchissima parte della letteratura del Novecento ci ha condotti a interrogarci sul concetto di maschera, sulle mille personalità che incarniamo nei diversi contesti che attraversiamo nella nostra vita, sulle molteplici declinazioni che, in una sola giornata, rendono illusoria la fede in una nostra identità stabile e riconoscibile. Ma c’è qualcosa sotto tutte queste personificazioni? Esiste un grado zero, corrispondente a un eventuale contesto neutro, in cui siamo noi senza riserve, senza protezione, senza ritegno o pudore? Soprattutto, si dà la possibilità di far affiorare sulla viva carne i pensieri, le domande, i sospetti e le paure che là fuori sopprimiamo perché inopportuni o pericolosi?


Insomma, “cosa fanno le persone quando non le stiamo guardando?”. Così si apre il libro Cose da fare per farsi del male, nuova intensa raccolta di racconti di Michele Orti Manara. Dodici racconti che  sembrano percorsi da un filo rosso comune, rappresentato da una impietosa nudità, dalla trasparenza più sincera e, al contempo, più crudele di vite al di là delle barriere pudiche delle finzioni, dei ruoli, delle funzioni, delle maschere. Orti Manara getta una luce potentissima sulle pareti esterne degli edifici in cui ci rifugiamo, così da attraversarle e permetterci di guardare senza essere visti: osservare senza inquinare con il nostro sguardo l’oggetto della nostra osservazione. O, meglio, guardare senza oggettivare. 


E’ il sogno di ogni scienza dell’uomo: guardare, indagare, interrogare, senza però trasformare l’essere umano in un oggetto, lasciandolo essere nella sua purissima soggettività, così da vederlo senza con ciò incastrarlo in matrici aprioristiche e, così, snaturarlo. Orti Manara realizza il sogno e ci restituisce tutta la goffa, incerta, perfino spaventata spontaneità dei propri personaggi. Una spontaneità che non significa scioltezza e libertà, e che tuttavia, se si fa ruvida, se produce attrito, è solo per quella ineliminabile ristrettezza di orizzonte che inerisce l’umano: un essere vivente che vorrebbe tutto, che potrebbe interrogare tutto, ma il cui punto di osservazione è sempre limitato a un qui e ora che significa fragilità, finitezza, e che, quando non si tramuta in meschinità, egoismo, violenza, richiede un coraggio al limite dell’incoscienza. Il coraggio dell’esploratore, che talvolta finisce per farsi del male, ma che solo così può giungere a sfiorare la propria più intima verità.  
  

Cose da fare per farsi del male
Michele Orti Manara
Perrone, 150 pp., 16 euro

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