Una fogliata di libri
Ecco come non si deve scrivere, firmato Cechov
"Ho provato quest’apparecchio in treno. Niente di che, si scrive, anche se male”. E gli appelli alla brevità, sorella del talento. “L’arte di scrivere. Regole per aspiranti scrittori” (Aragno editore) ci porta direttamente nell'universo del drammaturgo russo
Anton Cechov e la diffidenza: provò la macchina da scrivere – forse il treno non era il mezzo sul quale l’aggeggio potesse dare il meglio di sé (ne immaginiamo le dimensioni e l’elefantiaco macchinismo) – e rimase piuttosto freddino. Era meno freddo nei riguardi della lima, ancorché in senso astratto: strumento utile, antico, mai separarsene – anzi, tenerlo sul tavolo. E siccome “il prurito dello scrittore è incurabile”, assottigliare, assottigliare, assottigliare. A farla brevissima si potrebbe riassumere così tutto quel che ha da dirci con questo “L’arte di scrivere. Regole per aspiranti scrittori”, che l’editore Aragno manda in libreria regalandoci la versione integrale delle “Paginette čcechoviane”, testo che ne univa due e fu pubblicato da Budil’nik il 18 luglio del 1904 a piè di necrologio dell’autore.
Tuttavia Čechov, oggi pubblicato come un evangelista dello scrivere come Dio comanda, un quasi profeta, un vero Incontestabile, dovette sopportare gli attacchi violenti dei contemporanei, che si risparmiarono ogni cautela e fecero roteare la mazza stroncandolo, irridendolo e rimproverandolo con degnazione in merito al fatto che i suoi racconti fossero spenti e vuoti, e proponessero vicende, in fondo, di nessun interesse, incentrate su scoloriti personaggi di provincia che si limitavano ad agire poco e in forma non propriamente eroica, e che nemmeno si capivano granché tra loro. Era considerato, insomma, uno scrittore “incapace di sentire gli eventi e le individualità”. Prima di questo periodo era passato quasi inosservato, autore per lo più di raccontini umoristici su riviste di terz’ordine, caratterizzate – così parlò D. P. Mirskij – da una “buffoneria banale e di bassa lega”. Solo nel 1886 riuscì a dare una svolta a quest’attività di umorista-cottimista e a dedicarsi a opere più articolate e complesse. E fu qui che piovvero le critiche. Con “Una storia triste” prese il via il suo periodo maturo, poi nel 1895 scrisse anche una pièce, “Il gabbiano”, messa in scena dal Teatro di Stato di Pietroburgo l’anno successivo: fiasco completo, fischi e lazzi, e Cechov fuggì dopo il secondo atto giurando che mai più avrebbe scritto per il teatro. Per fortuna non accadde.
E quando il ricco mercante moscovita Stanislàvskij e il drammaturgo Nemiròvicč-Dàncčenko fondarono il Teatro d’Arte, lo scrittore affidò loro “Il gabbiano”. Rappresentato nel 1898, diventò un successo. Ma non fu, di fatto, granché capito: il carattere non drammatico dei suoi drammi – l’essenzialità di questa leggerezza in cui nulla si consuma perché nulla è vivo davvero – fu il tratto meno compreso anche dai molteplici imitatori.
Ciò che colpisce in questo saporito librino sono i frequenti appelli alla brevità “sorella del talento”. E affermazioni quali “a me pare che non debbano essere gli scrittori a decidere su questioni come quelle su Dio, eccetera. Compito dello scrittore è rappresentare chi, come e in quali circostanze si è pensato a Dio,” che raccontano benissimo lo scrittore.
Va incorniciato e appeso questo manuale in tre righe su come non si debba scrivere mai. “Il racconto è piuttosto deboluccio”, scrive Čechov. “Prevale l’orientamento ideologico. I dettagli colano come olio versato, i personaggi si notano appena”. E adesso facciamo un gioco: pensate all’ultimo romanzo che avete letto.
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