Mostra 'Giacomo Matteotti. Vita e morte di un Padre della democrazia' (Ansa, Fabio Cimaglia)

Quel riformista rivoluzionario di Matteotti

Matteo Marchesini

A un secolo dall'omicidio. Il coraggio del socialista ucciso dai fascisti e abbandonato da liberali e comunisti. Un saggio di Massimo Salvadori

A un secolo dall’omicidio Matteotti, i caratteri della società italiana che gli sono costati la vita si confermano endemici. Non solo perché al governo abbiamo pezzi di una destra estrema più o meno pittorescamente fascisteggiante; ma perché anche le culture politiche prevalenti nell’Italia repubblicana faticano ancora a fare i conti con la vicenda del deputato socialista in modo degno – cioè senza ritoccarla, addomesticarla, e smussare quei suoi angoli che sbattono contro le loro colpe storiche. Spiega bene i motivi della rimozione “L’antifascista. Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio”, un saggio di Massimo Salvadori edito ora da Donzelli.

Salvadori sottolinea che Matteotti è stato un “riformista rivoluzionario”: se da un lato si è opposto al massimalismo agitatorio e impotente, dall’altro non è assimilabile al moderatismo compromissorio di Turati. Questo giurista colto e agiato, tenacissimo nell’organizzare le leghe contadine del suo Polesine, mostra la sua intransigenza già davanti alla Grande guerra, a cui si oppone con più nettezza del suo partito, prevedendo che porterà a un secondo conflitto (di lì a poco proporrà gli Stati Uniti d’Europa). Nel Dopoguerra è eletto alla Camera, e nel biennio rosso-nero insiste su rivendicazioni radicali ma puntuali. Mette in guardia dalle illusioni di palingenesi, e promuove lo sciopero come strumento mirato, anziché come “assalto indefinito” e dunque fatalmente destinato a confondere e depotenziare il movimento proletario. Matteotti commisura i mezzi ai fini, consapevole che il prezzo della demagogia lo pagano sempre i più deboli. Vuole emancipare le classi oppresse dosando con rigore e pragmatismo la lotta aperta, il richiamo al diritto e gli interventi sulla scuola. Rifiuta di consegnare le masse agli autocrati della rivoluzione comunista, che come non pochi socialisti, e come parecchi popolari e liberali, nemmeno considerano il fascismo un vero avversario.

 

Nel 1922 le sue posizioni gli costano l’espulsione dal Psi. Con Turati, Treves e altri forma allora il Partito socialista unitario, di cui diventa segretario, e che alle elezioni del 1924 raccoglie a sinistra il maggiore consenso. Ma nel celebre discorso alla Camera del 30 maggio, Matteotti chiede l’annullamento del voto, denunciando i brogli squadristi, ribattendo agli insulti con eccezionale misura, e spronando i colleghi a una difesa comune di quelle regole democratiche che quasi tutti sottovalutano o accettano solo strumentalmente. Dieci giorni dopo viene rapito e ucciso da una banda fascista legata ai massimi esponenti del governo.

 

La sua morte scuote Einaudi e risveglia Salvemini, il quale comprende che il martire era un suo alter ego davvero “concreto”, cioè, a differenza di lui, in grado di sopportare le responsabilità quotidiane della politica. Purtroppo, però, l’omicidio conferma anche la debolezza delle opposizioni, che anziché rivitalizzare le istituzioni scelgono l’Aventino. In sintesi, quella di Matteotti è la storia di un uomo ucciso dai fascisti, lasciato solo dai liberali complici o ignavi, disprezzato e mistificato dai comunisti. Questo militante coraggioso ha riconosciuto subito nel mussolinismo la “giustizia privata” e mafiosa che caratterizza i più vari settori della società italiana – dove doppiezza e ricatto, menzogna e sopraffazione sono ovunque. E’ stato un socialista non parolaio, rispettoso dei fatti, e capace di demistificare la propaganda di regime anche analizzando nei dettagli le questioni economiche. Perciò era inattaccabile, se non con la violenza. Qualunque professione e tendenza ideologica abbia, in Italia rischia la vita prima di tutto chi sa e vuole leggere correttamente i bilanci: Notarbartolo, Matteotti, Ambrosoli, Falcone. 

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