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Una fogliata di libri

Se ti annoio, salta. Parola di Stendhal

Marco Archetti

Ciò che il romanziere francese conosceva erano le due cose più importanti per chi voglia scrivere: la noia e la prospettiva. E riconosceva alla vita il diritto di interrompere la sua scrittura, così come alla scrittura la vita

Stendhal scriveva per distrarsi, non per obbedire a una vocazione straziante. Tra un amore incompiuto e una disperazione sentimentale, scriveva. Il che vuol dire che riconosceva alla vita il diritto di interrompere la sua scrittura, così come alla scrittura la vita. Ne vennero fuori “Armance”, “La certosa di Parma”, “Il rosso e il nero”, “Lucien Leuwen” – tutte vite vive. Invece Civitavecchia era morta, e mortalmente noiosa: quattordici mesi da console furono come guardare la vernice che asciuga e la vita sentimentale fu poverissima di occasioni, tutte perse o quasi. “Le disavventure del mio amor proprio”, le chiamò nel sublime “Ricordi d’egotismo”, in cui rendeva edotto il lettore dei suoi fiaschi a letto. Ciò che Stendhal conosceva erano, insomma, le due cose più importanti per chi voglia scrivere: la noia e la prospettiva. Il vuoto e lo sguardo. Da dove scrivi? Ti ridurrai a scrivere pur di continuare a non vivere? 

   

“Non ero allegro, ma imparai l’arte di sembrarlo”. Anche sulla pagina: Stendhal aveva il dono della prosa superficiale, cioè il senso della superficie e della danza, e non faceva concessioni alla noia in forma di auctoritas auto attribuita, al contrario. Nei “Ricordi di Henri Brulard” raccomanda di continuo ai lettori: saltate pure le pagine, io non me la prendo. Correte avanti, tornate indietro. (Un po’ come negli anni Ottanta, quando entravi al cinema a film iniziato e cominciavi a vederlo dal secondo tempo. Poi restavi dentro e guardavi il primo). Stendhal riconosceva i diritti della noia anche di chi, quelle pagine che la noia aveva generato, le affrontava dall’altro lato della barricata: scrivo per noia? Appunto: se ti annoio, salta. Scorri. Scrolla, come su IG. E tra l’altro farà di tutto per assicurarsi che le proprie memorie potessero essere pubblicate molti anni dopo la sua morte. Notevole, no? Saltate le pagine, saltate anche me. 

   
Qualcuno parlò, a proposito della “Certosa di Parma”, di architettura spontanea. Troppo bello per essere vero, ma troppo vero per essere anche bello: inevitabile notare come il genio di Stendhal sembri un genio malgré soi. In pochi hanno scritto senza perdersi dentro la propria scrittura, senza invischiarsi nella monumentalizzazione sintattica di sé stessi, presupponendo la diluizione delle proprie ambizioni. Grafomane senza vanità da letterato, scriveva romanzi come i suoi contemporanei scrivevano lettere. Lasciò alcune opere incompiute (“Henri Brulard”, “Lucien Leuwen”, i “Souvernis”) e cassetti pieni di abbozzi. E un romanzo fermo a un terzo, “Lamiel” – lo stesso “De l’amour” nasconde decine di romanzi non scritti, solo potenziali.

  

“L’opera di genio ha il senso della conversazione”. Bellissime le pagine di “Ricordi d’egotismo” in cui Stendhal racconta del salotto di M. de l’Etang. Rimase colpito dallo spirito di chi lo frequentava e dal padrone di casa che dirigeva i lavori in modo che “non parlassero mai tre persone alla volta”. E aggiunge: “Non esprimerò mai abbastanza la mia stima per quella società, possibile solo nella patria di Voltaire, Molière, Courier”. Impossibile in Inghilterra, ridacchia: tutti si sarebbero fatti beffe di un duca come di chiunque altro. Impossibile in Germania: troppo creduli per ogni sciocchezza filosofica di moda. Ma soprattutto, impossibile in Italia: ciascuno avrebbe continuato a monologare per venti minuti, poi sarebbe rimasto per tutta la sera nemico mortale del suo antagonista nella discussione.

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