Burma Sahib
La recensione del libro di Paul Theroux, Hamish Hamilton, 400 pp., 23,75 euro
Ho deciso di aprire il Rangoon Café. Ci metterò dentro le cose che ho collezionato in vent’anni”, dice, o sogna, un vecchio espatriato in Birmania che ha abbandonato il paese dopo il colpo di stato militare del 2021. Si è stabilito a Bangkok e vuole far rivivere la Birmania del sogno orientalista. Quando nei club si beveva sherry nel grande bicchiere chiamato schooner, quando lo Strand era uno dei migliori alberghi “East of Suez” e il Canale di Suez era stato aperto da pochi anni. Quando Yangon si chiamava ancora Rangoon, com’era stata battezzata dagli inglesi nel 1852, al termine della seconda guerra anglo-birmana. Quando i “noi” erano i “sahib log”, i Signori, come gli inglesi volevano essere chiamati, e “loro” erano “dirt”, spazzatura, ossia i birmani. In compenso i gentiluomini dovevano esercitare la loro supremazia “con giustizia e compassione”.
Quelli erano i tempi in cui vivono i personaggi di Burma Sahib. Il protagonista è il diciannovenne Eric Blair, che sarebbe divenuto famoso come George Orwell, che arrivò in Birmania come ufficiale della Indian Imperial Police. Un puro Sahib Log, appena uscito da Eton, per quanto di origini “discutibili” per i suoi connazionali: il padre era un agente dell’Opium Department. Eric avrebbe trascorso in Birmania cinque anni. Un tempo sufficiente ad avvertire un senso di avversione per l’autorità che lui stesso rappresentava, per il conformismo, il paternalismo, l’ottusità della cultura coloniale. “C’è un breve periodo nella vita di ognuno in cui il suo carattere viene formato definitivamente”, scriverà Orwell dei suoi Giorni in Birmania (1934), il suo primo romanzo, quello che avrebbe descritto la sua formazione sociale e politica oltre che narrativa.
La stessa frase appare come epigrafe di Burma Sahib. Un romanzo che è un po’ il Rangoon Café di Theroux, un luogo dove mette dentro le cose collezionate in anni di vita e di viaggi.
Anche lui, da giovane volontario del Peace Corp, insegnante in una scuola del Nyasaland, prima che quel territorio diventasse il Malawi indipendente, si è confrontato con il colonialismo. Anche lui è stato influenzato dalle atmosfere tropicali, cariche di quel calore, quell’umidità e quella violenza che trasudano nel corpo e nella scrittura di libri come The Great Railway Bazaar (1975), che lo ha consacrato come uno dei grandi scrittori di viaggio o “The Mosquito Coast” (1981) in cui si avverte la sua ispirazione conradiana.
In fondo i tempi in cui ha viaggiato Theroux non sono così diversi da quelli di Conrad o Orwell. Solo che oggi, come ha dichiarato, molte delle cose che tutti loro hanno scritto sarebbero bandite da una cultura altrettanto ipocrita di quella coloniale.
Paul Theroux
Hamish Hamilton, 400 pp., 23,75 euro
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