una fogliata di libri
Thomas Mann e il crepuscolo della modernità liberty
Il centenario della "Montagna Incantata". Un giovane ingegnere, sette anni in un sanatorio, duelli intellettuali e la trasformazione di un autore. Un capolavoro che esplora la modernità e il destino umano
“Hans Castorp non era né un genio né uno sciocco”, scrive Thomas Mann all’inizio della “Montagna incantata”, oggi divenuta “magica” nella traduzione di Renata Colorni: un mediocre, insomma, se non fosse per il “significato superpersonale” del suo destino. Castorp è un giovane ingegnere amburghese che prima d’iniziare l’esistenza adulta va a Davos, dove visita in sanatorio il cugino Joachim. Dovrebbe starci tre settimane; ci rimane sette fiabeschi anni, chiudendosi nel limbo della malattia quando è ancora ignaro della vita. Un imprevisto simile è toccato anche al libro. “Der Zauberberg” nasce nel 1913 come racconto. Viene interrotto durante la guerra, e diventa poi un volume di 700 pagine.
Esce nel 1924: ed eccoci qui, per il centenario, a ricordarlo. In quel decennio l’autore si è trasformato: prima sostenitore reazionario della Kultur, organicistica manifestazione del mondo tedesco, contro la Francia illuminista della Zivilisation cara al fratello-avversario Heinrich, Thomas aderisce in seguito alla democrazia di Weimar. Ma la dicotomia, come quella tra il borghese e l’artista, continua a condizionarlo. Lo testimoniano Settembrini e Naphta, i due strani educatori di Castorp, che a Davos, come di lì a poco Cassirer e Heidegger, ingaggiano vertiginosi duelli dialettici. L’italiano è un retore della Zivilisation: crede nelle magnifiche sorti, nel sincretismo progressista dell’epoca. Naphta invece, modellato su quel Lukács che come Mann stava attraversando una conversione, è il sinistro alfiere della Kultur: adora il Medioevo e la Rivoluzione, disprezza la modernità che c’è in mezzo. In entrambi spicca una contraddizione: l’umanesimo cosmopolita di Settembrini sfocia nel nazionalismo, la religione di Naphta nel terrore nichilista. Rimuovendo il peccato, Settembrini oscilla tra amore incondizionato per l’uomo e pretesa eugenetica; rimuovendo la libertà, Naphta smentisce la sua fede. Ma oltre che dalle idee Castorp è sedotto dai sensi rappresentati da madame Chauchat, languido incrocio di maschio e di femmina, o di oriente e occidente. E madame farà conoscere al ragazzo un’altra figura seducente, Peeperkorn, che sembra un personaggio di Gombrowicz finito chissà come in un romanzo di Mann.
In tutto il libro le idee, i suoni e le sensazioni corporee sfumano gli uni negli altri: di qui l’atmosfera di dormiveglia o di allucinazione. Ideale e insieme brutalmente fisica è anche la morte, che nel sanatorio viene rimossa. Ma è per lei che matura Castorp, in questo paradossale Bildungsroman: dopo sette anni, nel 1914, lo vediamo sparire nel fango delle trincee. “La montagna” di Mann ci parla del crepuscolo di una modernità liberty che è cronologicamente vicina, ma esistenzialmente già lontanissima. Non a caso, le riflessioni sulla percezione del tempo sono ovunque; e del resto, in quel primo ‘900, il tempo è in questione anche narrativamente. Mann però non batte le strade di Proust o di Joyce. Si finge un narratore arretrato, cerimonioso; e grazie a un’ubiqua nota ironica si permette una eccezionale meticolosità dell’affabulazione. E’ come se il narratore definito da Benjamin, anziché procedere per esempi morali, componesse un impensabile romanzo. Il Mann maturo è molto diverso dal naturalissimo epigono ottocentesco dei “Buddenbrook”. Davanti alle sue performance si ha un’impressione contraddittoria: da un lato si ammira il controllo e la vastità dell’estro; dall’altro si avverte un senso di schematicità prolissa, imposta a freddo. Di qui i giudizi opposti sulla sua opera: che ha illustri estimatori (da Croce a Lukács a Primo Levi) e altrettanto illustri detrattori (Nabokov, o da noi Sebastiano Timpanaro).