Una fogliata di libri

I dieci passi dell'addio

Raffaella Silvestri

La recensione del libro di Luigi Nacci edito da Einaudi, 128 pp., 16 euro 

Qui non si può dire memoir, bisogna dire romanzo. “Qui” è il nostro sistema editoriale. Si spaventano i librai, si spaventano i lettori, crolla tutta la filiera. E allora per carità: romanzo. Peccato, perché non ci sarebbe niente di più commerciale e sordido del memoir, che non è la storia di una vita, ma il racconto personale di un fatto proprio. Non c’è niente di più sincero di qualcuno che racconta i fatti propri, anche quando mente. Negli Stati Uniti i memoir stanno nel bookclub di Oprah, qui sono prodotti di nicchia. Questo, memoir o romanzo, è memoir nella forma: il racconto unilaterale e in soggettiva della fine di un amore. C’è un solo personaggio, che tende a un poetico, straziante vittimismo, e proprio esprimendo questo vittimismo è sincero, dice qualcosa di universale e vero. C’è una vitalità, nei libri scritti per auto-terapia, come sembra questo, che si trova solo nei migliori romanzi. Perché nel romanzo la vitalità va ricreata, in questo tipo di libro invece la materia è sufficientemente cruda, non processata, infantile, e per questo appunto condivisibile. Il protagonista e narratore di questo diario di guarigione (un diario di malattia, in realtà, perché finisce semmai all’inizio del processo di guarigione) ha “assassinato un amore” innamorandosi di un’altra. Lei, che era tutta un sorriso, “un sorriso che cammina”, ora piange ed è magra come un fenicottero ed è tutta colpa sua (di lui). Chi piange la mattina è mezzo stordito, vivo solo per metà, e quindi per metà salvo. Chi guarda qualcuno piangere al mattino in realtà sta peggio, dice il narratore. Che, fatte le dovute proporzioni tra le due colpe, ricorda un po’ Humbert Humbert di Lolita, che è il male assoluto, cioè il male di chi fa del male credendosi sempre vittima, pensandosi vittima. C’è qualcosa di intrigante e voyeuristico nel seguire il lirico lamento di questo narratore unico, narratore-universo: c’è solo lui, e quindi ha ragione solo lui. E spiegando le regole del suo universo un po’ svela anche quelle del nostro. “Ho riletto i messaggi che mi hai scritto negli anni del nostro amore. Mi sono voluto fare del male”. Non dire “non ti riconosco più”, ma “che bello amore non ti riconosco più, aiutami a riconoscerti”, e però tradire subito dopo l’ego fragile di chi non riesce ad accettare l’odio nello sguardo dell’amata-non-più-amata. La puerilità del “non ho saputo rispondere”. E’ un libro caldo e ferito, con il suo lessico – la stanza del non sonno, la masseria delle tristezze; un’intera poesia dell’addio, in cui gli involtini primavera volano e esplodono come bombe.

   

Luigi Nacci 
I dieci passi dell’addio
Einaudi, 128 pp., 16 euro 

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