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Una fogliata di libri

L'ispirazione autentica di Dario Voltolini

Matteo Marchesini

Nel suo universo iperreale l'autore coglie le sfumature più amare del rapporto familiare. Il vuoto prende forma nelle opere di uno fra gli scrittori più interessanti dalla fine del secolo scorso

Negli anni ’90 il secolo breve era finito, e quello successivo doveva ancora cominciare. L’industria culturale “pesante” nascondeva il cinismo dietro i blasoni di un Novecento già rimosso, e non era ancora insidiata dal web. Non stupisce che sia stato un decennio di “novità”, tecnologiche e ideologiche, divenute presto obsolete. La sfrontatezza pretenziosa dei suoi letterati appare oggi patetica. Davanti alla mimesi mediatica di un Gori, i cannibali ricordano un Commodore 64: e non a caso, più tardi hanno inseguito tutti i carri che credevano vittoriosi senza trovare un’identità. Ma per fortuna c’era altro. Alcuni narratori hanno rappresentato con coraggio l’angoscia subliminale che increspava una “normalità” sempre più anonima: penso a Claudio Piersanti, e in parte a Dario Voltolini. Agli esordi, Voltolini ha praticato una sorta di prosa d’arte nell’epoca della sua riproducibilità informatica. Coglieva i legami impalpabili tra piani diversi di realtà giustapponendo dialoghi e microsaggi, racconti minimalisti e liriche travestite. La sua attenzione si concentrava sul punto in cui un mondo iperreale, nelle sue smagliature, sembra rivelare una verità quasi matematica, che però subito sfuma in percezione animalesca. “Invernale”, il suo ultimo libro uscito per La nave di Teseo, conferma che è rimasto fedele alle origini. Non solo perché descrive ancora i rapporti famigliari nel tempo, o ripropone il mito struggente di Sivori; ma soprattutto perché continua a trattare la narrazione come una partitura musicale. Del resto, il declino del padre protagonista è quello di un macellaio ed ex calciatore che ha un orecchio assoluto per il ritmo di certi gesti. Il suo mercato è un “golfo mistico”, i coltelli strumenti da accordare. E l’inizio della fine, l’incidente per cui si mozza un pollice, è una nota sbagliata sulla tastiera del bancone. L’insicurezza che affiora di colpo è causa o effetto della ferita? Chissà. Certo il padre, mentre agisce, comincia a pensare troppo: ciò che era natura diventa sforzo.

Fuori dal lavoro, indugia senza meta in quei dintorni che finché regge la routine restano inesplorati. Inizia la sinfonia atonale delle diagnosi, coi suoi presagi simili a ultrasuoni: e l’indugio si trasforma allora nell’esitazione di chi avverte ormai la vita come arbitrio. Anche l’uomo più comune, nella malattia diventa esistenzialista. Ma nulla è più straziante dell’esistenzialismo di chi non ha strumenti per raccontarlo e si richiude su abitudini svuotate, sapendo che il nuovo contesto (ozio obbligato, cliniche francesi…) gli rimarrà estraneo: è il rovescio dei vantaggi di questo Ivan Il’ic che, non essendo vissuto nel falso, non scopre un “vero”. Voltolini sa dare consistenza al fenomeno junghiano per cui le sensazioni del padre si riversano nei pensieri o nei sogni del narratore-figlio. Rimangono in lui dei grumi non scioglibili in racconto: come segnala la sintassi nervosa, che accosta anafore battenti e gerundi quasi sereniani. Molte sono le nature morte di un Barocco un po’ filtrato da Baricco, e gli scorci di una piccola borghesia ancora impregnata di crudezza rurale che ricorda “Il posto” di Ernaux. Voltolini, si direbbe, droga un’ispirazione che però è autentica. L’estetismo da natura decomposta e viscere, velato dai termini “chirurgici”, è nella letteratura recente l’ennesima versione di un dannunzianesimo endemico. Ma qui somiglia più alla patina di stagione che avvolge un nocciolo di verità; almeno fino agli ultimi capitoli, dove si regolano conti privati. “Invernale” fa tornare in mente il Vangelo di Giovanni: “Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. E per un uomo vecchio o malato, chiosava Piergiorgio Bellocchio, qualunque direzione è “dove lui non vuole”. 

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