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Una fogliata di libri

Von Neumann e l'essenza della modernità

Michele Silenzi

Quella del matematico e fisico ungherese è la storia di un genio senza limiti, capace di prevedere l'importanza di computer e nucleare prima di tutti: contro ogni confine imposto dal moralismo, nella più spregiudicata fame di conoscenza

Recentemente sono usciti per Adelphi due libri, tra loro molto diversi, sul matematico John von Neumann che con le creazioni della sua mente ha inciso in maniera decisiva sul corso della nostra storia: “L’uomo venuto dal futuro” di Ananyo Bhattacharya e “Maniac” di Benjamin Labatut.
Von Neumann venne al mondo all’inizio del Novecento, in una Budapest propaggine orientale della gloriosa Vienna della finis Austriae, da una famiglia ebrea molto benestante. Giovane prodigio, brillantissimo, fu anche per tutta la vita un bon vivant, diverso da altri geni schiacciati sotto il peso della loro stessa intelligenza. Dopo gli studi in Germania con il grande David Hilbert, emigrò negli Stati Uniti, invitato a Princeton dove si trovava anche Einstein. Deciso ad aiutare gli Stati Uniti a vincere la Seconda guerra mondiale, fu di supporto anche al progetto Manhattan dove venne chiamato da Oppenheimer per risolvere questioni che nessun’altro sembrava in grado di affrontare. 


Nato come matematico puro, in giovanissima età diede contributi decisivi a questa disciplina (e alla meccanica quantistica) per poi progressivamente allontanarsene, come se considerasse esaurita la sua vena di elaborazione squisitamente teorica, per dedicarsi a questioni più pratiche, tra tutte l’ideazione e lo sviluppo dei primi computer
Hilbert, suo maestro, aveva creato un celebre slogan, “Dobbiamo sapere, sapremo!”, che ben rispecchiava la fiducia assoluta riposta dalla scienza teorica nella propria capacità di conoscere il mondo. La percezione che si ha leggendo della vita di von Neumann è che egli sia tutto sommato rimasto fedele a queste parole, a questa idea di conoscenza di tutte le cose, ma che avesse spostato la speranza di realizzare un tale progetto dalla teoresi alla prassi. 


Racconta Bhattacharya nel suo libro che, un giorno della primavera del 1945, von Neumann tornò a casa, mentre si trovava a Los Alamos decidendo quale città giapponese colpire con la Bomba, e dormì per dodici ore. Quando si svegliò iniziò a parlare con la moglie con tono sconvolto e quasi profetico. Disse che stavano costruendo qualcosa di mostruoso che avrebbe cambiato la storia (se ci fosse stata ancora storia dopo), ma che non si poteva non portare a termine un tale progetto non solo per ragioni militari. Sarebbe stato infatti non etico, dal punto di vista degli scienziati, non fare ciò che sapevano essere possibile fare, a dispetto delle tremende conseguenze che ciò avrebbe potuto comportare. 


E’ chiaro come nelle parole di von Neumann si manifesta l’essenza della modernità, ossia di quel progetto di voler sapere tutto, di inoltrarsi senza limiti nella conoscenza, che era stato avviato dalle grandi avventure di Magellano e degli altri navigatori, dalle filosofie di Cartesio e di Bacone, dalla Rivoluzione scientifica, e che era poi via via culminato nella relatività, nella meccanica quantistica e ora nelle straordinarie applicazione pratiche (catastrofiche e grandiose) che von Neumann stava tenendo a battesimo (dall’energia nucleare alla potenza dirompente dei computer che tutto possono calcolare e quantificare). 


E’ un’idea, quella espressa da von Neumann, ovvero la spregiudicatezza assoluta della scienza rivendicata addirittura come istanza etica, che non può essere oggetto di piccoli moralismi del limite. E ripropone quella che oggi è forse più che mai una questione chiave: se una cosa è tecnicamente possibile, per quale motivo non dovremmo farla? Perché dovremmo porci un limite? Esiste qualcosa di più importante del dispiegamento della conoscenza e dell’intelletto dell’uomo? Esiste qualcosa che abbia un qualche statuto ontologico (o di verità) superiore, e che possa fungere da freno, nel momento in cui tutto è ormai a portata di mano? O non è forse la modernità, che culmina anche nell’opera di von Neumann, la realizzazione di una soggettività che comprende che la verità più alta sia la propria produzione della verità?