Benedetto Croce - foto LaPresse

Una fogliata di libri

Di Benedetto Croce e di tutto il suo contrario

Matteo Marchesini

"Venticinque aneddoti crociani" è il libro del 1936 che mostra più degli altri il lato ironico del filosofo: bilanciato e coerente nel suo pensiero, in questo volume Croce criticava i filosofi da lui considerati troppo astratti

La Filosofia dello Spirito è spiritosa? Dovrebbe esserlo, se si risolve nel concreto. E lo è appunto dove deride i filosofi astratti o puri, che giudica puri asini. Confermano lo “spirito” i “Venticinque aneddoti crociani” stampati ora da Babbomorto, e pubblicati per la prima volta nel settantesimo compleanno di Benedetto Croce. Era il 1936, anno di grande consenso del regime. Il filosofo di Palazzo Filomarino costituiva allora una specie di governo ombra o Vaticano laico. E in questa veste appare anche qui. Sa di dover calibrare con attenzione ogni attacco, e non solo a causa della situazione politica: “La critica è un fucile molto bello: deve sparare raramente!” dice in un aneddoto a chi lo sprona a stroncare un gentiliano già stroncato. Dalla filosofia si passa poi al boccaccesco con Witz: “Lo stesso idealista attuale (…) considera l’economica come il Male. / Ciò suggerisce al Croce l’avvicinamento a quella monaca, di cui parla Balzac: la quale riteneva peccato il soddisfare necessità digerenti, ma, non potendo farne a meno, sospirava: ‘Signore, a Voi l’offro!’”.
 

Il teorico che insegue distinzioni e purezze estetiche è nei fatti severo anche con i “puri esteti”; e l’erudito, ospitato nella villa di un bibliofilo, ha nostalgia dei poveri banchetti di libri napoletani: la troppa bellezza lo stucca. Per lui i libri non sono alibi oziosi ma strumenti per pensare. Nella postfazione, Massimo Gatta osserva che sia il filosofo sia le bibliografie dei suoi scritti tacciono sul volume aneddotico. Viene da sospettare che Croce vi vedesse un omaggio un po’ eccessivo, stilisticamente poco crociano. In ogni caso, assai somigliante appare qui la sua maschera: un po’ da Goethe, un po’ da principe umanista, un po’ da motteggiatore avvezzo alla cruda vitalità napoletana non meno che alle categorie tedesche. È il pensatore a cui piace mostrare che le analisi più sottili sono traducibili in un motto di buon senso, ma che non sa abbandonare il mito della Filosofia maiuscola. Questo suo equilibrio indispone tanti giovani cresciuti accanto a lui e divenuti eretici. Croce li punisce, ma non ama nemmeno i discepoli canini: come approvare chi perde il senso delle proporzioni nel seguire i consigli di un maestro che è tutto proporzione? Il fatto è che Croce vuole una corte, ma vuole anche dei veri interlocutori; così come, contraddittoriamente, vuole la Realpolitik ma anche l’etica liberale. In apparenza, sulla Realpolitik se la cava bene. A un pubblicista professore in America (Prezzolini?), il quale gli rinfaccia di aver contribuito a creare, con la sua idea di politica come forza amorale, il regime fascista a cui ora si oppone “per sentimento, non per logica”, il filosofo risponde che “è come dire che un fisico Galileo, che stabilisce la legge della caduta dei gravi per la linea verticale, dia il cattivo consiglio alla gente di gettarsi dalla finestra e cadere come un grave per la linea verticale”. Ma questo Croce convince poco: sia perché crocianamente non funziona il confronto tra le scienze dure e quelle dello spirito, sia perché lo sviluppo del suo pensiero è un po’ diverso. Come il libretto stesso testimonia, davanti alle offese personali gli è facile alzare le spalle, ma quando si tratta di difendere la sua coerenza filosofica diventa tirannico.
 

Gli aneddoti iniziano con uno sfottò contro Borgese: che proprio allora, esule negli Stati Uniti, ricordava a sua volta come l’ex maestro avesse cambiato idea sulla politica senza però ammettere l’errore, e quindi diminuendo la sua credibilità. Uno come Croce, quando sa di avere sbagliato, ha una tentazione che oggi noi ci godiamo anche irritati: cavarsela con una battuta lasciata cadere dall’alto. Atteggiamento comunque migliore della damnatio memoriae a cui nel secondo Novecento lo condannarono i puri filosofi, cioè i puri asini.

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