Se giuri sull'arca
La recensione del libro di Mattia Tarantino, Fallone editore, 80 pp., 16 euro
A distanza di tre anni dall’ultimo libro, Mattia Tarantino, che di anni ne ha solo ventitré, torna in libreria con un breve e densissimo poema dove la parola è così soppesata e calibrata al suo dire che se non si conoscesse la sua età si penserebbe a un libro-testamento di uno sciamano ultracentenario che, in extremis, consegna al mondo la sua parabola di vita e di non-vita, attraversando quella soglia celaniana in cui si intersecano ere, genealogie, eredità. Diviso in tre sezioni (Se giuri sull’arca, Sciababàb, L’Ermeneuta), fin da subito ci si rende conto che non si tratta di un libro scritto per restare su carta, ma qui il linguaggio non a caso straborda dall’inchiostro ed è tutto teso a raggiungere una dimensione orale che obbliga il lettore quasi ad alzarsi e recitare, girare per le stanze, provare e riprovare, se ogni singola sillaba si insidia nella mente come un martello e non dà tregua, ritorna come un mantra o una formula di fattucchiera. Ci sono echi di Samuel Beckett, delle visioni allucinate di Dino Campana o del grammelot di Dario Fo quando si inventa anche lui una lingua per le sue creature ctonie, in una viandanza sapienziale tra civiltà prima e dopo la Storia e poi crea neologismi, azzanna e smembra le lettere come se fossero corpi di un’èra a venire da suggerire al mondo. Corpi che appena si mostrano e poi rientrano subito nell’ombra sottilmente, che vengono dal passato ma anche dal futuro, portano i semi del disastro, della rovina, sono corpi di sola voce, scarnificati, incrocio di più specie, profetici, antichi come il fuoco e nuovi come germogli, che portano marchiati oracoli che possono essere solo presentiti ma serpeggiano tra le ossa e poi divampano come sangue caldo nelle vene, all’improvviso. Siamo di fronte a un libro-danza, frenetico, convulso, dionisiaco, cabalistico, che segue una rotta per cambiarla subito dopo, in cui le voci si affollano, si accalcano come fossero anime dannate in attesa del Giudizio Universale. L’impressione è di assistere allo sviluppo ma anche alla negazione di una storia, tra carovane, arche, nuovi regni, villaggi perduti e archetipici, esseri multiformi inventati ex novo, in un macrocosmo labirintico che quando è indagato nelle sue minuzie unisce abilmente l’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, come in questo passaggio: “Gettano qualche pietra sul selciato, rami secchi, fanno un fuoco. Non hanno nulla da nascondere e grosse teste d’asino, maschere, una croce di gesso sulle vesti. Quello è il segno, il segno sospeso tra gli ingranaggi del vuoto, bulloni e province; c’erano città lontane, cupole, bassifondi. Schècchera ca scizu zan te, bisbigliano qualcosa in una lingua inaccessibile, li scrutano, si siedono”.
Se giuri sull’arca
Mattia Tarantino
Fallone editore, 80 pp., 16 euro