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Una fogliata di libri

Carola Susani e quei paragoni giustificati

Matteo Marchesini

La scrittrice di "Il libro di Teresa" si traveste da scienziata e immagina come sarebbe costruire una società da zero allineando sullo stesso piano Storia e cronaca minuta

Nella narrativa di Carola Susani si trova un po’ ovunque la traccia di un’infanzia eccezionale, comunitaria, che continua a trasmettere alla scrittrice il suo slancio pratico, rivoluzionario e messianico. Non di rado i suoi libri affrontano una deriva civile nella quale tocca a un gruppo di bambini rifondare i riti essenziali, ricreare la vita come primitivo bricolage. Lo s’intravede già nel suo romanzo d’esordio uscito nel 1995, intitolato “Il libro di Teresa” e oggi ripubblicato da Marietti. Spesso davanti alle narratrici italiane si citano a sproposito Natalia Ginzburg o Elsa Morante; ma stavolta è giusto farlo. “Il libro di Teresa” ha l’aspra freschezza del primo romanzo ginzburghiano, “La strada che va in città”, e si concentra su una saga di stampo morantiano, sottraendola alla pedanteria fiabesca dell’autrice della “Storia” e riducendola a una scheletrita leggenda biblica. Susani osserva dal basso, con cruda ilarità, il disfarsi dei nuclei parentali. Qui la vicenda, scandita per capitoli-tableaux a più voci e prospettive, riguarda una famiglia di piccola borghesia tra il fascismo e il boom economico. Sotto un titolo che evoca sia le profezie sia i conti domestici, e che è dedicato all’ultima erede in cui si compendiano le anime degli antenati, il lettore incontra un testo assai scarno, che però si dilata nel ricordo come un fiore in acqua.

“Il giorno che arrivò lo Spirito era mezzogiorno. La tavola era apparecchiata per sette”: così l’incipit, dove lo Spirito è un piccione ma al tempo stesso è letteralmente la terza persona della Trinità. La trama si appoggia a rivelazioni o decisioni brusche, improvvise, che segnano una vita; e il sacro vi è inscindibile dal sesso. L’orgasmo non dipende qui dalla fusione con un altro essere umano; gli altri umani o animali sono semmai fonte di godimento là dove se ne prevede o provoca la morte, confermando un proprio schema teologico. Ne risulta una specie di mistero medievale che allinea sullo stesso piano Storia e cronache minute, morte e festa, euforia fanatica e disgusto, con effetti da solenne comica muta (e del resto, cos’altro sono certe vite illustrate dei santi?). Nel “Libro di Teresa”, come in altre opere di Susani, ci si dimentica se a parlare è un maschio o una femmina: sembra sempre di avere a che fare con una creatura al di qua e al di là del sesso, con una voca bianca e cupa senza età, o con lo sguardo sadico di un bambino-vegliardo.

Qui i blocchi di prosa (i versetti?) hanno una perentoria rapidità di tratto che sopporta solo il racconto secco o le sentenze, ma non le descrizioni e i dialoghi in cui ci si spiega diffusamente. Quando si mostra un gusto così ossessivo per la carne in decomposizione e per la purezza dell’ostia, se non si vuole cadere nell’estetismo bisogna andare a passo svelto: Susani ha capito che occorreva mettere gli uni accanto agli altri, senza transizioni, dei dettagli in apparenza arbitrari e dei campi lunghissimi. Giocando con le categorie di Auerbach, potremmo dire che in seguito è passata dall’essenzialità biblica a una minuzia omerica: con molta abilità, pur correndo il rischio del pittoresco. Rimane comunque sempre, in lei, la stessa attrazione per le storie ridotte a giocattoli macabri, a un infantile trionfo della morte; e rimane la tendenziale coincidenza tra un’acuta consapevolezza dell’atrocità dei destini e un rispetto perfino allegro della verità di ognuno. “Dove finisce una comune e dove inizia una tribù o una cosca – e viceversa?”: sembra questa la domanda radicale che ispira Susani. Travestita da scienziato mistico-politico, la scrittrice continua a immaginare come sarebbe costruire una società da zero: e immaginando, le capita di essere volta a volta Hobbes o Hannah Arendt.