Una fogliata di libri

Alla corte di mio padre

Giulio Silvano

La recensione del libro Isaac Bashevis Singer edito da Adelphi, 328 pp., 20 euro 

Svelato il mistero della grande capacità del Nobel Isaac Bashevis Singer di leggere così bene l’animo umano, di individuare con così tanta lucidità desideri e pulsioni, di raccontare i rapporti umani. Il padre di Singer per lavoro gestiva in casa un Beth Din, una corte rabbinica, una “specie di connubio fra tribunale, sinagoga, casa di studio e, se vogliamo, lettino dello psicanalista, dove chi aveva l’animo turbato poteva venire a sfogarsi”. E così, fin da piccolo, Singer è testimone di persone che avevano bisogno della profondissima conoscenza biblica e talmudica del padre, che faceva da Salomone nelle diatribe della comunità ebraica. Origliando da dietro la porta, o fingendo di studiare mentre qualcuno si presentava a lamentarsi e a cercare soluzioni, Singer ha conosciuto gli uomini, oltre a vedere in azione, come pacificatori o giudici, le sacre scritture e la saggezza rabbinica.

In Alla corte di mio padre, tradotto da Silvia Pareschi, leggiamo i racconti autobiografici, collegati tra loro – che quasi viene il dubbio che fossero pensati già in origine come opera unica – che Singer aveva scritto per un quotidiano yiddish di New York, dopo la sua fuga dall’est europeo. Il piccolo Singer, prima nei villaggi polacchi come Leoncin e Radzymin e poi nella via Krochmalna di Varsavia, incontra nello studio-ufficio del padre personaggi alla ricerca di una qualche verità. Famiglie di giovani promessi sposi che si fanno scherzi invece di prepararsi al matrimonio, anziane del popolo che ricordano i figli abbandonati in un impeto di passione, uomini ossessionati dall’arrivo del messia, meticolosi hassidici dalla barba lunghissima che chiedono di fare testamento, poverissimi lattonieri che sognano di andare nella Terra promessa, uomini che cercano le cento firme dei rabbini per poter stare con un’altra donna senza dover divorziare dalla moglie malvagia, suicidi innamorati… “Quando sarai grande capirai…”, gli dice il padre quando si trovava di fronte a dibattiti per adulti. “Ma il tempo trascorreva lentamente, e io rimanevo sempre un bambino. Gli anni non passavano mai”. La casa, “roccaforte del puritanesimo ebraico dove la mondanità è condannata e il corpo è visto come una mera appendice dell’anima, diventa il palcoscenico della vita. Gli occhi di un bambino filtrano le storie, tirandone fuori i significati più profondi. La religiosità, che nell’ebraismo va di pari passo allo studio costante dei testi, permette all’adulto Singer che ricorda e scrive, di mettere tutto sotto luce degli insegnamenti millenari del suo popolo, ritrovando anche l’origine delle sue prime domande sulla vita che ancora lo assillano. “In piedi sul balcone con il mio caffettano di satin e il mio cappello di velluto, mi guardai intorno. Com’era vasto il mondo, e com’era ricco di varia umanità e strani accadimenti!”.

   

Isaac Bashevis Singer
Alla corte di mio padre
Adelphi, 328 pp., 20 euro 

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