Foto Getty

Una fogliata di libri

Il tempo ambiguo della letteratura

Marco Archetti

Il capolavoro di Thomas Mann non si limita a raccontare il dolore, ma fa sgorgare l'intera storia dell’Europa e del suo destino. Il mondo sparisce piano piano per via della sua deperibilità, ed essere malato diventa una condizione dello spirito, prima esistenziale e poi politica

Dolore che hai, romanzo che trovi.  E’ un momento ambiguo per la letteratura, sovraccaricata di pesi incongrui come mai prima. Certo, per amor di equilibrio sarebbe meglio affidarsi alla cautela di un forse: ciò che del passato ha resistito e oggi leggiamo è il risultato di una giustizia del tempo che ci consegna certo il suo decreto, ma anche il rischio di non riconoscerlo come tale, cioè l’esito di un colpo di scure – l’angolo di lavoro della scure è sempre cieco per chi viene dopo: i trucioli volati via, il polverio paraletterario in voga all’epoca è ormai indisponibile al raffronto. Chi può dire se anche cinquant’anni fa esistesse una letteratura del dolore personale o un’articolata offerta di strazi individuali nutriti dal terrificante auspicio che ciò che veniva scritto potesse “aiutare chi legge”. Chi può dire se anche nel passato ci siano stati momenti in cui si è confusa la letteratura col manuale d’istruzioni per l’uso sociologico-esistenziale della biografia di chi scrive + convincimento di universalità + dovere autoimposto di utilità pubblica (ma non c’era un tizio che diceva che tutta l’arte non serve a niente? e non gli abbiamo dato sempre ragione?).


La malattia. La morte. Questi mari, la letteratura, li ha sempre solcati. Non è questo il punto. Proviamo a fermarci al Novecento, anche solo a Thomas Mann e a “La montagna incantata”, grande poema della morte e del dolore ma soprattutto “dramma satiresco, riscontro umoristico a ‘La morte a Venezia’” (parole dell’autore durante una conferenza a Princeton nel maggio del 1939, segnarsele e ricominciare a leggerlo, ed ecco che vi si dischiuderà tutto un altro mondo). Ebbene, questo capolavoro non si limita a raccontare il dolore, non è un medical-book e non ci sono angeli in corsia né moralissime, sante intenzioni. Ma, dalla vicenda di Hans Castorp, fa sgorgare la storia dell’Europa e del suo destino, che sembra segnato, insieme a quello del protagonista. Il senso di una predestinazione aleggia su tutto ciò che accade già dalle prime righe, già da quel tortuoso, difficilissimo accedere al luogo in cui si trova il sanatorio, quel viaggio in salita, le salite che sembrano non finire mai, quell’ascesa sempre meno promettente, le interruzioni e gli intoppi, i cambi di treno, lo scartamento ridotto, le soste lunghe, il maltempo.

E man mano che il romanzo racconta, racconta sempre meno di Hans Castorp (anche se abbiamo l’impressione contraria e seguiamo la vicissitudine della sua presa di coscienza di malato) e sempre più del mondo intorno, degli altri malati, dei riti e del conflitto di teorie, insomma, pian piano il mondo sparisce e viene sostituito dalla sua rappresentazione in forma sanatoriale: e viene fuori il tempo, monarca crudele e indifferente. Essere malato non è più la condizione individuale di un personaggio, ma diventa una condizione dello spirito, una condizione prima esistenziale e poi politica.

“Lei soffre, ingegnere, soffre come un uomo smarrito”, dice Settembrini a Castorp, trafiggendolo. “Gli pareva”, riferisce Thomas Mann rovistando tra i pensieri del suo protaognista (sempre meno di sé stesso e sempre più di tutto il resto), “che alla vita fosse negato di comprendere sé stessa”. La malattia come irredimibile condizione di cecità, come scontro con la verità della materia bruta di cui siamo fatti: carne deperibile. La deperibilità del mondo, degli uomini e della Storia.
 

Di più su questi argomenti: