Una fogliata di libri
L'antiromanzo che Patrick Modiano ha scritto contro sé stesso
“Un pedigree” è una rievocazione familiare senza la famiglia che brilla per essenzialità, senza nessun cedimento all'introspezione. Un'opera capace di confermarsi come grandissima lezione di stile e di letteratura, anche a diversi anni dalla pubblicazione
Il passato è la realtà? Patrick Modiano ha una faccia da cardiologo ma da giovane sembrava un attore di Truffaut. Vive vicino ai Jardins du Luxemborug, in una vecchia casa, letteralmente circondato dai libri. In un’intervista rilasciata a France 5 nel 2014, l’anno del Premio Nobel, ha detto che gli capita di scrivere un po’ ovunque, quindi anche lì, nel suo studio, circondato da tutti quei volumi, e che la situazione gli ha sempre fatto pensare a quel racconto di Francis Scott Fitzgerald, “Il pomeriggio di uno scrittore”, in cui il protagonista si siede alle dieci del mattino con l’idea di scrivere e alla fine si fa atterrire dalla presenza angosciante dei volumi che gli incombono alle spalle, così si mette a bere.
La sovrabbondanza che incombe è anche una delle ragioni per cui a volte si beve e non si legge, prede, anche noialtri, di pregiudizi allevati a terra, lontani dallo spazio iperuranico delle fascette editoriali dove tutto è straordinario, imperdibile, epocale, ondate smodate e modaiole e premi che spesso ci hanno deluso – quanti scrittori a cui è stato conferito (da queste parti si è sempre preferito dire “comminato”) il Nobel che, alla fine, non avevano niente per noi?
Così succede che si aspettano anni. E comprare magari si compra, ma poi si legge? Finché un giorno accade: smaltito il chiacchierame e affievolita l’ondata, si scopre un romanzo per quel che è. E “Un pedigree” di Patrick Modiano è un romanzo che vola in quota capolavoro, per essenzialità, stratificazione, splendide reticenze. Esprimendoci in termini grossolani potremmo dire che è un antiromanzo che contraddice l’epoca in cui è stato pubblicato (Gallimard 2005, Einaudi 2014), oltre che una grande, grandissima lezione di stile e di letteratura: un’opera che, finalmente, uno scrittore ha scritto contro sé stesso, strappandosela da vuoti di cui ha solo minima consapevolezza. E senza alcun cedimento all’introspezione. 81 pagine, e nemmeno una riga di interiorume o di messa cantata ai propri – ehm – sentimenti. C’è un’infanzia tremenda e selvatica, e mai la fotogenia autocommiserativa da écrivain che sussurra al dolore.
Il romanzo è una rievocazione familiare senza la famiglia – “humus e letame”, dice Modiano. Che scrive: “I miei fanno conoscenza una sera di ottobre del 1942, da Toddie Werner, detta Madame Sahuque, rue Scheffer 28, XVI arrondissement. Mio padre usa una carta d’identità che porta il nome dell’amico Henri Lagroua. I frammenti che ho messo insieme sulla loro vita li ho appresi soprattutto da mia madre”. Che – va detto – è una madre da far impallidire quella di Antonio Franchini.
“Un pedigree” è una lista di fantasmi che rievoca un mondo, grandi bauli pieni di gente, un’infanzia e una solitudine sterminata, sogni balzacchiani di fortuna, la morte di un fratello, la scuola di Montcel, le vacanze del 1958. E le estati, da lì in poi, “punti di riferimento della vita, col loro mezzogiorno eterno”. Ma Modiano arranca: “Vorrei respirare un’aria più pura, mi gira la testa. Continuerò a snocciolare quegli anni, ma con voce affannata. Bisogna fare presto o non ne avrò più il coraggio”. Poi frammenti del tipo: “La risata di Queneau, metà geyser, metà raganella”. E mille considerazioni che dubitano di sé stesse e rifuggono le conferme.
Il passato, dunque, è la realtà? A volte è un film, ma nessuno può dire se “in versione originale o doppiata”. E noi, in fondo, siamo sempre qualcun altro.
Una fogliata di libri
Ieri e oggi allineati, alla stessa distanza. Lettera da un déjà-vu
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