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Giorgio Pasquali, foto via Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica - Università di Pisa
UNA FOGLIATA DI LIBRI
Giorgio Pasquali, un Praz luminoso
Affamato di contatti umani, come documentano le sue "Pagine stravaganti". Ad appassionarlo c'è la lingua parlata, il costume e la formazione degli individui. Punta su un accrescimento del sapere non sistematico eppure organico, in cui i dati hanno senso solo se collocati in una gerarchia di valori
Leggere le vicende di specialisti in discipline delle quali si ha appena una vaga conoscenza è un’attività che può dare un gusto tutto speciale. Anche quando gli specialisti in questione sono tipi sedentari, sembra di immergersi in un racconto d’avventura. E’ più o meno con questo spirito che ormai da un anno, cioè dalla sua uscita, sfoglio ogni tanto i “Ritratti di filologi” di Sebastiano Timpanaro raccolti da Raffaele Ruggiero per l’editore Aragno. Tra i ritratti, al solito di suprema limpidezza argomentativa, spicca quello dedicato al maestro di Timpanaro Giorgio Pasquali, uno dei massimi filologi classici del Novecento, di cui si celebrano nel 2025 i 140 anni dalla nascita. Ma questo allievo di Friedrich Leo e di Wilamowitz, che ha indagato la preistoria della poesia romana e commentato le lettere di Platone, difendendo il suo campo di studi dal nazionalismo, dall’estetismo e dai classicismi angusti, è stato molto più di un filologo.
La vastità della sua cultura è paragonabile solo a quella di Mario Praz. Pasquali però è un Praz luminoso e affamato di contatti umani, come documentano i volumi delle sue “Pagine stravaganti”. Lo appassionano la lingua parlata, il costume contemporaneo, e soprattutto la formazione degli individui, poco importa che si tratti di Girolamo Vitelli o di Vittorio Emanuele III, dell’effetto di “Cuore” o della goliardia. Pur lontano da lui politicamente, Timpanaro lo difende dai marxisti che vorrebbero ridurlo a un eccellente tecnico: era invece, sostiene, uno storico integrale, assai più di quel Croce che isolava la poesia in una purezza senza tempo, e dimenticava così quanto il valore di un testo sia determinato anche dai suoi echi culturali. Nel ritratto della raccolta Aragno, risalente al 1973, spiccano alcune righe che oggi più di allora dovrebbero essere ricordate ai falsi specialisti delle humanities: “Uno dei principi a cui Pasquali più teneva” scrive Timpanaro “è che ‘nelle scienze dello spirito non esistono discipline severamente delimitate, ‘scomparti’, Fächer, ma solo problemi che devono essere spesso affrontati contemporaneamente con metodi desunti dalle più varie discipline’”.
Ciò implica “un forte senso dell’unità della cultura e, al tempo stesso, il gusto del problema singolo”: Pasquali punta su un accrescimento del sapere non sistematico eppure organico, in cui i dati hanno senso soltanto se collocati in una gerarchia di valori. Il miglior metodo di discussione resta per lui il seminario sperimentato prima della Grande guerra nelle università tedesche, in una Germania divisa tra il filologismo e l’umanesimo goethiano recuperato col filtro di Nietzsche, e già vicina a quella deriva fanatica dei movimenti giovanili che l’avrebbe presto allontanata dalle moderne radici europee. E’ un metodo che il grande interprete dei classici tentò d’importare e di difendere in Italia contro la miseria dei nascenti esamifici, della burocrazia dei concorsi, degli accademici “rimasticatori di croste”.
“Dialettica ed insegnamento sono lo stesso: questo dovrebbe esser pacifico da Platone, anzi da Socrate in poi: i soli che, anche se si tenta di chiarirlo loro, non se ne convincono (per stupidità?) sono gli inventori o peggio i cultori di una pretesa disciplina pedagogica, che è, chi ben guardi, arte avvilita a mestiere” ha scritto Pasquali in “Storia dello spirito tedesco nelle memorie di un contemporaneo”, il libro-testamento in cui commenta la biografia dell’archeologo Ludwig Curtius mettendole a fianco la propria. Sfogliatelo, e vi darà gusto: è un inno a un’educazione libera e liberale, a una Germania irriducibile ai fantasmi gotici, e alla Roma ancora quasi pontificia, di vecchi barocci e nuove speculazioni edilizie, che entrambi gli studiosi abitarono alla fine della Belle Epoque.
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