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una fogliata di libri

Perdersi nelle vie di Roma traboccanti di vita. Lettera dal Tevere

Marina Corradi

Passeggiare una domenica all'alba, sotto a un cielo minaccioso. La città che ti prende per mano, mentre il suo fiume scorre eterno

Una domenica, all’alba. Roma si sveglia sotto a un cielo minaccioso. Nuvole gonfie su Piazza Navona deserta e noi due, sparuti milanesi. I Tritoni gettano la loro acqua generosa. Pensi allo scrosciare ininterrotto dell’Acqua Paola, su al Gianicolo. A Roma l’acqua preme dal sottosuolo.

E’ il Tevere. Spesso opaco, pigro, un vecchio che sa a memoria ogni cosa. Ma a Ponte Garibaldi ha un sussulto, come un turbinio rapinoso. Subito si ricompone. Chissà che ha sentito il Tevere a Ponte Garibaldi, cosa lo ha turbato. 

Quanto a me, gioco. Prendo una via sconosciuta, poi giro ancora. Una piazza mai vista. Fantastico, mi sono persa. Adesso è Roma, che mi prende per mano.  

Vago sul porfido lucido, alzo gli occhi: un vecchio palazzo ha le persiane, tutte, chiuse. Tranne una. Chissà chi vive lassù, nella casa vuota. E’ che questi muri traboccano di vite – e  quanto vorrei conoscerne qualcuna.

Una chiesa, San Paolo alla Regola. Quanto care mi sono le panche scure delle chiese di Roma. Ma, la Regola? Che Regola? Deformazione di “arenula”, la sabbia che il fiume porta nelle alluvioni. Qui visse Paolo, che predicò dapprima agli ebrei, nell’area del Ghetto. Nientemeno che a casa di Paolo, Roma mi ha condotta.  

Poi inesorabilmente torno a Campo de’ Fiori, festa perenne. Un sole di marzo forza il blocco delle nuvole. Il giallo abbagliante degli anemoni su una bancarella, e accanto degli iris, di un viola fondo di Quaresima. Non riesco a togliermeli, quei fiori, di mente. Come un segno. Segno è ciò che indica qualcosa, oltre. 

E cammino, cercando, perché è evidente che qualcosa mi manca da sempre.  

Da queste parti, in una chiesa che non saprei ritrovare, una mattina d’ inverno ho visto addormentato su una panca un mendicante. Il sacrestano, niente: come se l’uomo fosse stato dove gli spettava. 

Allora l’ho invidiato. Un portone spalancato, una penombra mite: semplicemente abbandonarsi, alla fine, su una panca di una chiesa di Roma. Sentendo il Tevere che scorre: eterno, in pace, mentre noi passiamo.

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