Diavolo di un vulcano

Andrea Ballarini

Avanti, coraggio, alzi la mano chi ha mai letto lo scritto leopardiano in questione dopo il liceo. Su, su, non vergognatevi, siamo uomini di mondo, lo sappiamo come vanno le cose: di questi tempi il tenero Giacomo non è proprio nella lista dei besteller.

    Al momento in cui sto scrivendo questo pezzo lo spazio aereo europeo è più chiuso che aperto, nel senso che ogni poche ore giunge una direttiva dell'ENAC e di altri organismi analoghi che, in base ai capricci del vulcano islandese Eyjafjalla e a dove tira il vento apre o chiude le rotte aeree: ora sì, ora no, ora sì, ora no. Cogli l'attimo.

    Il vulcano dal nome impronunciabile ha un carattere notoriamente collerico e una volta, nell'Ottocento, ha continuato a sparare milioni di tonnellate di polveri in giro per l'atmosfera per un anno a fila. Ieri poi si è addirittura sfiorato il panico quando via Twitter qualcuno ha fatto circolare la foto di un gigantesco pennacchio di fumo nero dicendo che si trattava dell'eruzione di un secondo vulcano islandese, enormemente più potente, l'Hekla, al cui confronto l'esuberanza dell'Eyjafjalla sarebbe parsa un ruttino involontario. La prospettiva era quella di rispolverare d'urgenza piroscafi e treni per il XXI secolo. Molto chic. Poi, nel giro di una dozzina di ore la notizia è rientrata, con buona pace dell'intero sistema mondiale dei voli che non è andato letteralmente in fumo: metafora che in questi giorni si è sprecata e che anch'io non ho voluto farmi mancare.

    La cosa interessante è che questo Hekla viene citato anche in una delle Operette Morali di Giacomo Leopardi il “Dialogo della natura e di un Islandese”, anche se il poeta di Recanati lo chiama monte Ecla, traduzione italiana che, lo confesso, mi ha complicato non poco la ricerca su svariati browser. E' curioso notare come questa, che è poco più di una spigolatura letteraria cavata fuori da qualche giornalista che ha fatto le superiori, sia rimbalzata di redazione in redazione, in articoli e servizi televisivi e radiofonici.
    Avanti, coraggio, alzi la mano chi ha mai letto lo scritto leopardiano in questione dopo il liceo. Su, su, non vergognatevi, siamo uomini di mondo, lo sappiamo come vanno le cose: di questi tempi il tenero Giacomo non è proprio nella lista dei besteller; alle sue elucubrazioni esistenziali i clienti delle librerie preferiscono di gran lunga le peripezie horror-sentimentali di una coppia disfunzionale umana/vampiro: i gusti cambiano.

    Eppure, è bastato che qualcuno lo nominasse e, improvvisamente, il "Dialogo della Natura e di un Islandese", che aveva riposato senza soluzione di continuità in qualche angolo neuronale da remotissime ere scolastiche è tornato a far parte delle nostre vite. Magari fuggevolmente, d'accordo, ma considerando che era addirittura finito sotto la perifrastica passiva e gli affluenti di sinistra del Po non è risultato da poco. Questo e il bello del villaggio globale: si sono modificati i mezzi, ma non è cambiata la sostanza. Una volta si trattava di pergamene faticosamente compilate dai copisti medievali, oggi di internet, ma è solo questione di interfaccia. Fondamentalmente è rimasto tutto come ai tempi di Titivillus.

    Gli amanuensi nello scriptorium dovevano guardarsi dalle insidie che tendeva loro il diavolo Titivillus, un subappaltatore di Belfagor, Lucifero e compagnia bella, che approfittando del freddo, della stanchezza, della poca luce e del fatto che non di rado quei buoni monaci scrivevano senza capire, faceva trascrivere talamo al posto di calamo. Ne conseguivano bufale perpetuate magari per generazioni e crisi isteriche di legioni di filologi che si dannavano l'anima per capire se Cesare passando il Rubicone avesse detto “Alea iacta est” o invece “Alea iacta esto”, con l'imperativo futuro con valore esortativo: e si tiri ‘sto dado, cribbio! Oggi il caro Titivillus ha solo affinato le sue armi: secoli di sporco lavoro non passano invano per nessuno.

    Titivillus adesso lavora in modo più sottile ma continua a far sì, che tutti si ripeta questa notizia dell'Hekla e del dialogo dell'Islandese senza saperne un tubo. Eppure, per conoscerne un minimo di più – suvvia, nessuno pretende una tesi in vulcanologia o sulle prose del più gobbo dei nostri poeti – basterebbe pochissimo: internet è lì a portata di mouse, digital divide permettendo. Ma proprio perché è lì, facile e comodo, quanti si prendono la briga di voler davvero sapere? Pochi, pochissimi, giusto quelli che scrivono rubriche frivole come questa. Così si continua a ripetere a pappagallo una cosa di cui si ignora praticamente tutto e, soprattutto – qui sta la furbizia del diavolo – senza nemmeno rendersi conto di non sapere. Una bella vittoria per la diffusione dell'ignoranza: chapeau! A ben guardare, nel passaggio dalla cartapecora al wireless Titivillus ci ha guadagnato.