Lingue moribonde
In America registrare un brevetto industriale per tutto il territorio federale costa in media 1.850 euro, invece fare la stessa cosa per la metà dei 27 paesi della Ue costa circa 20.000 euro, un po’ più di dieci volte tanto.
In America registrare un brevetto industriale per tutto il territorio federale costa in media 1.850 euro, invece fare la stessa cosa per la metà dei 27 paesi della Ue costa circa 20.000 euro, un po’ più di dieci volte tanto. E perché? Principalmente perché il testo del brevetto deve essere convalidato paese per paese e tradotto di volta in volta nella lingua corrente del luogo, con il risultato che 14.000 di quei 20.000 euro vanno per i costi di traduzione. Non proprio la cosa più furba che si possa immaginare. Per questa ragione la Commissione europea ha proposto che ogni brevetto fosse redatto in una delle tre lingue ufficiali della Ue (francese, inglese e tedesco) e riassunto nelle altre due, ciò che avrebbe ridotto i costi di traduzione a circa 680. Non sembrava male come idea, peccato che durante una riunione tenutasi qualche giorno fa a Bruxelles i ministri dell’industria e della ricerca europei l’abbiano cassata. Per la verità sono state la Spagna e l’Italia che hanno trovato discriminatorio che le loro lingue non godessero dello stesso trattamento delle tre privilegiate.
L’amore per la propria lingua madre è una cosa encomiabile e da incentivare, ma come sempre est modus in rebus. Ogni tanto bisognerebbe anche avere il coraggio di sollevare lo sguardo dai propri ombelichi per guardare verso l’orizzonte. Come ha lamentato il commissario francese questi costi smodati fanno sì che molte medie industrie rinuncino a brevettare i propri ritrovati, con il risultato che “L’assenza di un brevetto europeo ostacola la nostra competitività, l’innovazione europea, la ricerca e lo sviluppo. In piena crisi economica non è un buon segnale”. Oddio, è pur vero che se la commissione avesse escluso il francese dal novero delle lingue in cui scrivere i brevetti, oltralpe avrebbero fatto un’altra rivoluzione, ma al di là di questa maligna illazione, bisogna pur riconoscere che questa ostinazione a voler la propria lingua a tutti i costi assomiglia un po’ alla lotta per la cabina di prima classe sul Titanic: comunque alla prima classe non si rinuncia.
Ma siamo davvero convinti che fare delle battaglie di retroguardia sia il modo per difendere la nostra cultura? Non sarebbe meglio fare qualcosa per portare, che so?, tanto per dirne una, il nostro cinema all’estero, invece che sfiancarsi a difendere recto e verso, ivi residente e in fede? Non è più importante difendere il meglio di quello che facciamo invece che i moduli burocratici? Non vorrei arrivare all’estremismo di un noto sociologo che scrive sul Corriere della Sera, il quale una ventina d’anni fa sosteneva che per divulgare la nostra cultura all’estero avremmo dovuto rendere fruibili i nostri prodotti culturali al grande mercato mondiale e quindi, in parole povere, scrivere direttamente in inglese – che è un po’ come tagliarsi un piede perché si ha male a un’unghia – però è innegabile che qualche scelta vada fatta. I governi esistono per assumersi la responsabilità di prendere delle decisioni che scontentano qualcuno per il bene di tutti; ma questo implica la capacità di avere una visione d’insieme. Ecco perché mi piacerebbe che le poche energie che abbiamo le usassimo per degli scopi nobili e non così alla carlona.
Anche perché alla fine della strada di questo che a me pare esclusivamente sciovinismo linguistico, si arriva ai deliri dell’autarchia linguistica. Durante il ventennio ci avevano già provato, ma non mi pare che i risultati siano stati così brillanti. Forse che qualcuno si ricorda che cosa fosse il bumerango? O lo sparecchio? O il tra-i-due? Per non dire del sangue morlacco? E' tragicamente dimostrato che il vocabolario medio degli italiani si sta drammaticamente restringendo, usiamo sempre meno parole per esprimere sempre più concetti: tra certi dialoghi postadolescenziali e alcuni brani di prosa da reparto marketing si potrebbe imbastire un bel gioco per la Settimana enigmistica. Non so, ma ho qualche dubbio che rivendicare il diritto alla traduzione in italiano della macchina per tagliare il brodo sia il modo giusto per difendere la nostra cultura.
Ah, giusto per non lasciarvi col dubbio, il bumerango era il boomerang, lo sparecchio il dessert, il tra-i-due il sandwich e il sangue morlacco un’idea di Gabriele D’Annunzio per tradurre il cherry brandy. Bè, altre volte, ha fatto di meglio.
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