Facebook, cattivo maestro
Da qualche tempo si moltiplicano le voci aspramente critiche su Facebook. La prima accusa è stata di essere una specie di trappola per tonni.
Da qualche tempo si moltiplicano le voci aspramente critiche su Facebook. La prima accusa è stata di essere una specie di trappola per tonni nella quale è facile entrare ma impossibile uscire, perché non si riesce più a cancellare il proprio account. Poi, da allora, quasi ogni settimana c’è stato qualcuno che ha levato la voce contro i pericoli del più popolare dei social network. Studenti espulsi da scuola perché durante le lezioni chattavano con i loro seimilacinquecentoventicinque amici; giovanotti taggati in fotografie con conigliette discinte accoccolate sulle ginocchia mentre le fidanzate li credevano al lavoro; ladri pirla beccati perché si vantavano delle loro imprese con i loro cyber-amici; utenti che si spacciavano per qualcun altro assumendone l’identità e così via. Per tacere dei blogger avvelenati contro Mark Zuckerberg, accusato di aver utilizzato i dati dei soci di Facebook per interessi privati: si dice che avrebbe patteggiato staccando un assegno da 65 milioni di dollari per chiudere l’incidente. Ultimo tra questi gridi di allarme quello di qualche giorno fa del Direttore generale della polizia nazionale francese Frédéric Péchenard che ha ricordato come “Con la loro presenza sui social network i poliziotti si espongono a tentativi di approccio da parte dei servizi di informazione stranieri” e che ha richiamato tutti i membri della polizia a osservare accuratamente i loro obblighi deontologici e il segreto professionale.
Secondo i detrattori – peraltro quasi tutti soci pentiti – Facebook sarebbe un apparato di disinformazione, falsificazione, oltreché di furto di dati privati, di sorveglianza e controllo delle opinioni e delle identità. In altre parole, una specie di Grande Fratello (nel senso orwelliano, non in quello endemoliano) che collazionando tutti i dati che i soci danno ingenuamente di sé può consentire la ricostruzione un profilo precisissimo di ogni persona, gusti e orientamenti politici compresi: una vera e propria manna per malintenzionati di vario genere, da quelli che cercano di venderti online l’aggeggio che aspira gli acari dai materassi, a criminali più o meno organizzati fino, come abbiamo visto, ai servizi segreti.
Come dice il claim del film che narra di come Zuckerberg e i suoi amici abbiano avuto la loro idea meravigliosa quando frequentavano l’università di Harvard, “non arrivi a 500 milioni di amici senza farti qualche nemico”. Deve essere vero. Ma quello che mi sembra più interessante è come la perplessità nei confronti di Fb stia assumendo i contorni tipici del complottismo, con il ventiseienne miliardario nella parte del grande burattinaio. E’ risaputo che quando una cosa o un personaggio hanno molto successo cominciano a stare sulle balle a molti. E’ anche altrettanto evidente, però, che agitare gli spettri del controllo globale è un’attività sostanzialmente inutile. I social network sono entrati così profondamente nelle nostre vite che sarà difficile tornare indietro facendo finta che non siano mai esistiti.
A parte gli invasati che trascorrono tutta la loro giornata a chattare, postare, linkare, condividere e dire quello che gli piace, è indubbio che i social network (non a caso da taluni detti social notworking) sono diventati anche dei poderosi strumenti di comunicazione i cui effetti si stanno facendo sentire in moltissimi campi della vita, dall’economia ai movimenti di opinione. Credo che a questo punto sia necessario cominciare a trattarli come una realtà con cui fare i conti, volenti o nolenti: da una parte le autorità dovranno certamente vegliare affinché i cattivi non possano sfruttarli fraudolentemente e dall’altra i buoni dovranno imparare i principi della social network education. In fondo anche con la tv è andata così: è ovvio che se la guardi 24/7 ti frigge il cervello ma, nonostante certi programmi incresciosi, non si può mica dire che sia il male di per sé.
Social network education credo significhi evitare di usare i post come una clava da dare in testa ai propri amici mappando millimetricamente la propria giornata (“Jessica Rabbit sta andando a fare la spesa; Jessica Rabbit ha pestato una cacca con il piede sinistro; Jessica Rabbit ha un problema di meteorismo”), non divulgare dati contrari al buonsenso (cellulari, codici fiscali ecc.) e, tendenzialmente, scrivere quando si ha una cosa da dire. Non necessariamente una sentenza destinata a restare nella storia, ma con un minimo di senso, sì. Altrimenti si corre il rischio di assomigliare a quelli che girano per le strade con un sacchetto del supermercato vuoto e ogni tanto si mettono a urlare quello che gli passa per la testa: è un modo di comunicare anche quello, ma forse si può aspirare a un modello più alto.
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