Mario, una vita contro la retorica
E’ morto Mario Monicelli. O meglio, Mario Monicelli si è ucciso. E nel nostro paese siamo tutti bravissimi a inventarci delle polemiche.
E’ morto Mario Monicelli. O meglio, Mario Monicelli si è ucciso. Poi, siccome nel nostro paese siamo tutti bravissimi a inventarci delle polemiche, abbiamo colto l’occasione per rilanciare la guerra sull’eutanasia, il testamento biologico, il diritto di staccare le macchine o il dovere di tenere in vita il prossimo finché è tecnicamente possibile. E quel che è peggio, non ci si è risparmiati i giudizi un tanto al chilo: c’è una deputata che trascinata dalla sua passione ha detto che buttarsi dal balcone dell’ospedale non è stata una scelta di libertà ma il gesto di solitudine di un uomo disperato e depresso.
Ora io non ho conosciuto personalmente Mario Monicelli, se non per un tre ore su un Frecciarossa tra Milano e Roma, durante il quale ci siano scambiati poco più di qualche parola, perché ero terrorizzato di dirgli una banalità che lo infastidisse, ma ho seguito piuttosto attentamente la sua carriera, sia perché mi piacciono i suoi film, sia perché le dichiarazioni e le interviste del sor Mario, come lo chiamavano i vicini di casa di via dei Serpenti, le ho sempre trovate molto irriverenti e assai diverse da quelle standardizzate dei suoi colleghi. Per quanto sia possibile conoscere un uomo attraverso delle manifestazioni pubbliche, come dei film o delle interviste, tutto mi è parso meno che un depresso. Peraltro la sua famiglia lo ha poi confermato. Anzi, la lucidità e l’energia fisica e intellettuale con cui argomentava lasciavano intendere un’immersione nella vita totale.
Quello che da fastidio è l’ansia di porre l’etichetta su un uomo: così, in due secondi, attribuendo un significato preconfenzionato a un gesto comunque estremo. Come se quel gesto avesse lo stesso significato per tutti: suicidio=depressione. C’è una frase di Marcello Marchesi che, secondo me, si attaglia bene anche a Monicelli: “L’importante è che la morte ci trovi vivi.” Penso che a un uomo che ha dedicato la vita a sfatare la retorica dei luoghi comuni, anche quelli più intoccabili – pensate cosa dev’essere stato nella democristianissima Italia del ’59 fare un film sulla Prima guerra mondiale trattandola dal punto di vista di due disgraziati che diventano eroi loro malgrado – avrebbe fatto un po’ ridere l’esegesi ideologica del suo suicidio e il tentativo di arruolarlo post-mortem: campione dell’autodeterminazione (e sotto sotto dell’eutanasia) o vittima della disperazione esistenziale. E’ proprio vero che in questo paese come fai una cosa, sbagli.
Lui, che qualche anno fa aveva scherzato sulla sua fine insieme a Dino Risi, dicendo che gli sarebbe spiaciuto morire a distanza di qualche giorno dal suo amico, perché i due eventi si sarebbero cannibalizzati a vicenda: un po’ come era successo a Ranieri di Monaco, che poi è morto Giovanni Paolo II e lui non se l’è filato più nessuno.
E’ difficile scrivere un pezzo sulla morte di qualcuno che probabilmente a quest’ora si sarebbe già stufato di leggere e avrebbe fatto una pernacchia. Quindi preferisco ricordare una scena de “I soliti ignoti”. Peppe (Vittorio Gassman) è appena tornato in carcere dopo essere stato giudicato, passa davanti a un gruppo di detenuti tra i quali c’è anche Cosimo (Memmo Carotenuto), per il quale avrebbe dovuto fare la “pecora” (cioè andare in prigione al posto suo), e quando ne incrocia lo sguardo fa una faccia depressissima e si allontana. Questi allora dice a un altro detenuto: “Va’ un po’ a sentire” e quello gli risponde: “E vacce te!”. Cosimo lo guarda disgustato e ribatte: “Ammapete che fiacca! Tu non vedi l’ora di morire per riposatte”. Ecco, la morte ognuno la vede a modo suo. L’importante è non prenderla troppo sul serio.
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