Più forte del genocidio

Edoardo Narduzzi
Questo è l’anno della celebrazione del centenario del genocidio della popolazione armena.

    Questo è l’anno della celebrazione del centenario del genocidio della popolazione armena. Cristiana da sempre e da sempre non turca, questa storica popolazione a cavallo tra Europa e Asia oggi è l’unico paese post sovietico a ospitare truppe russe sul suo territorio. Sono più numerose dell’esercito regolare armeno e servono a garantire l’indipendenza di Erevan dalle mire geopolitiche turche.

     

    Da 6.100 anni la vitis vinifera cresce sui declivi armeni. L’etichetta più famosa del paese è il Karasì, un rosso prodotto dall’uvaggio autoctono dell’Areni noir che nel 2012 assorse alle cronache mondiali perché Bloomberg lo segnalò tra le dieci migliori bottiglie dell’anno. Il Karasì è prodotto in vigneti Areni noir, che mai hanno conosciuto la filossera quindi è un super autoctono, piantati in 15 ettari a Rind, una zona un tempo proprietà di un monastero del Tredicesimo secolo, adagiati sulle pendici del monte Hararat. Se ne fanno circa 20mila bottiglie annue; le annate migliori come il 2010 possono essere scambiate a 60/65 euro il pezzo. Dietro il successo del Karasì che anche un po’ del made in Italy che vive la globalizzazione come una opportunità irripetibile. Italiani sono l’agronomo che ha scelto i terreni, Stefano Bartolomei, e soprattutto l’enologo, Alberto Antonini, colui al quale si devono i profumi ed il carattere del vino simbolo della rinascita enologica armena e che ha saputo produrre un vino unico a metà strada tra un Sangiovese e un Pinot noir. Perché in Armenia la vendemmia si fa in ottobre avanzato e l’Areni noir è ancora oggi in parte invecchiato nelle anfore interrate nel suolo. Gli armeni alle loro tradizioni ci tengono perché sono l’espressione della loro indipendenza e diversità.