Il governo tibetano in esilio dice che i morti a Lhasa sono già cento
La violenza del regime cinese contro la nonviolenza dei monaci buddisti
Lhasa. Cento morti, secondo il governo in esilio in India, è il bilancio della repressione miltare sulla manifestazione dei monaci tibetani. “Abbiamo notizie non confermate che circa cento persone sono state uccise e che a Lhasa è stata imposta la legge marziale”, ha denunciato il governo tibetano in esilio dal nord dell'India, poche ore dopo che fonti ufficiali cinesi avevano dato notizia di dieci morti nelle proteste di ieri.
Lhasa. Cento morti, secondo il governo in esilio in India, è il bilancio della repressione miltare sulla manifestazione dei monaci tibetani. “Abbiamo notizie non confermate che circa cento persone sono state uccise e che a Lhasa è stata imposta la legge marziale”, ha denunciato il governo tibetano in esilio dal nord dell'India, poche ore dopo che fonti ufficiali cinesi avevano dato notizia di dieci morti nelle proteste di ieri. Le autorità cinesi hanno chiesto ai rivoltosi di consegnarsi entro la mezzanotte di lunedì, offrendo loro clemenza in cambio di informazioni sui responsabili degli scontri. Il Parlamento tibetano in esilio ha invece invitato l'Onu a “inviare immediatamente propri rappresentanti e a intervenire e indagare sulle violazioni attuali dei diritti dell'uomo in Tibet”. Il governo in esilio si dice poi “profondamente preoccupato” per le notizie che arrivano “dalle tre regioni del Tibet di uccisioni sommarie, di feriti e arresti di migliaia di tibetani che protestavano pacificamente contro la politica cinese”. Nel frattempo, duecento esiliati tibetani a Nuova Delhi hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la violenta repressione cinese contro in nazionalisti tibetani. Una seconda ondata di tibetani in esilio ha poi deciso di opporsi agli ordini del governo indiano ed ha ripreso la marcia verso il Tibet. Mentre centodue tibetani sono ancora in carcere, un secondo gruppo di quarantaquattro persone è partito questa mattina dalla località di Dehra. Chime Youngdrung, presidente del partito nazionale democratico del Tibet, ha dichiarato: "Le proteste coraggiose dei nostri fratelli in patria ci hanno reso ancor più determinati nel voler continuare questa marcia e portarla a termine. Poiché siamo testimoni di una escalation di violenze da parte del governo cinese a Lhasa, crediamo che sia importante per noi ritornare a casa per riunirci con i nostri fratelli e sorelle che stanno combattendo per sopravvivere sotto l'occupazione cinese".
I paesi occidentali si affrettano a condannare la violenza della repressione (tra questi, Usa e Ue), ma non aderiscono al boicottaggio delle Olimpiadi, previste a Pechino dall'8 agosto. G.W.Bush per gli Usa, Gordon Brown per la Gran Bretagna e Javier Solana per l'Ue presenzieranno alla cerimonia di apertura dei giochi.
Gli scontri in Tibet erano cominciati il 10 marzo, anniversario della “rivolta nazionale” del 1959. Alle manifestazioni non violente che ricordavano la rivolta del Tibet contro l'occupazione cinese sono seguiti i primi arresti, poi la polizia e i paramilitari hanno usato armi da fuoco, lacrimogeni e bastoni contro i monaci buddisti che, a Lhasa e in altre città tibetane, chiedevano più libertà religiosa e più diritti. L'esercito e i carriarmati avevano circondato i monasteri della capitale, le strade di accesso sono state chiuse. Un centinaio di monaci del tempio di Ramoche si sono scontrati con le forze dell'ordine, quando decine di persone hanno cercato di unirsi alla loro marcia pacifica. Trecento monaci che tentavano di lasciare il monastero di Sera sono stati fermati dai bastoni della polizia. Secondo la comunità tibetana in India, le proteste si sono allargate ad altre province, tra cui Qinghaï. Seicento monaci del monastero di Labrang, nella provincia di Gansu, alla testa di una processione di migliaia di tibetani con bandiere e slogan inneggianti alla libertà del Tibet, sono stati dispersi dalle pallottole cinesi. “Sembra che la gente comune si sia unita alle proteste”, ha detto alla Bbc Kate Saunders, portavoce dell'International Campaign for Tibet. A Lhasa, manifestanti hanno risposto alla repressione incendiando il principale mercato, automobili della polizia e negozi cinesi.
Il Dalai Lama ha denunciato duramente le “enormi e inimmaginabili violazioni dei diritti umani” da parte della Cina; 400 tibetani del monastero Drepung hanno sfilato a Lhasa chiedendo la liberazione dei monaci arrestati nell'ottobre 2007 perché festeggiavano la medaglia d'oro del Congresso al Dalai Lama; da Dharamsala, sede indiana del governo tibetano in esilio, è partita una marcia per raggiungere la frontiera cinese nel giorno dell'inaugurazione delle Olimpiadi. Queste manifestazioni sono le più importanti che la Cina deve affrontare dal 1989. All'epoca, l'attuale presidente Hu Jintao, appena nominato capo del Partito comunista per la regione autonoma tibetana, impose la legge marziale. Anche questa volta Pechino intende reprimere qualsiasi attività “separatista”. Il Dalai Lama ha ufficialmente rinunciato all'indipendenza e rivendica soltanto l'autonomia del Tibet, ma per il Partito comunista cinese rimane “un rifugiato politico impegnato in attività secessioniste con l'alibi della religione”. Il capo spirituale dei tibetani ha chiesto ai suoi di non ricorrere alla violenza e alla leadership cinese di porre fine alla repressione per iniziare il dialogo con il popolo tibetano: “E' irrealistico aspettarsi unità e stabilità sotto la forza bruta”.
Gli Stati Uniti, che hanno appena tolto Pechino dalla cima della lista dei peggiori violatori dei diritti umani, hanno espresso “rammarico” e “richiamato” la Cina al rispetto della cultura tibetana. L'Europa ha lanciato un appello alla “moderazione”, ma niente sanzioni in stile Birmania. “Quello che accade ci preoccupa molto – ha detto il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema – Chiediamo alla Cina di porre fine alla repressione”. Ma l'Italia non farà marcia indietro sulla fine dell'embargo alle armi a Pechino: è importante “includere la Cina nella comunità internazionale” e recuperare il ritardo nei rapporti commerciali. L'India, tradizionalmente vicina al Dalai Lama, ha usato le maniere forti per fermare la marcia dei tibetani in esilio, marcia ripresa questa mattina. I cento monaci che volevano raggiungere il Tibet sono stati condannati a 14 giorni di detenzione. “A Dharamsala non funziona più Internet”, ha raccontato al Foglio il radicale Marco Perduca, che con Sergio d'Elia e Matteo Mecacci ha inaugurato la marcia. Nelle sue preghiere il Dalai Lama ha ricordato Marco Pannella, lo sciopero della sete per il Satyagraha, “mobilitazione per il rispetto dello stato di diritto ovunque. Pacta sunt servanda”, ha spiegato Perduca e “la Costituzione cinese riconosce alle minoranze uno status di autogoverno”.


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