La guerra sciita in Iraq

Sadr esce dall'esilio, rifiuta di disarmare e s'appella alla Lega d'Iran

Redazione

Baghdad. Moqtada al Sadr è ricomparso ieri davanti alle telecamere di al Jazeera, ben più magro rispetto all'ultima volta che si era visto, nel maggio dell'anno scorso. Con tempismo perfetto, il leader sciita dell'esercito del Mahdi ha chiesto alla Lega araba, riunita a Damasco in un summit boicottato dai regimi forti (Arabia Saudita, Egitto e Giordania), di sostenere la sua “resistenza” contro “l'occupazione straniera”. I sadristi da cinque giorni combattono nel sud dell'Iraq e a Baghdad contro le forze di sicurezza governative, mentre il loro leader si dice stia in Iran a studiare per diventare ayatollah.

    Baghdad. Moqtada al Sadr è ricomparso ieri davanti alle telecamere di al Jazeera, ben più magro rispetto all'ultima volta che si era visto, nel maggio dell'anno scorso. Con tempismo perfetto, il leader sciita dell'esercito del Mahdi ha chiesto alla Lega araba, riunita a Damasco in un summit boicottato dai regimi forti (Arabia Saudita, Egitto e Giordania), di sostenere la sua “resistenza” contro “l'occupazione straniera”. I sadristi da cinque giorni combattono nel sud dell'Iraq e a Baghdad contro le forze di sicurezza governative, mentre il loro leader si dice stia in Iran a studiare per diventare ayatollah. I morti a Baghdad sarebbero almeno 130, a Bassora l'esercito iracheno dichiara di aver ucciso 120 miliziani. Sawlat al Fursan, la carica dei cavalieri, è il nome dato dall'esecutivo di Baghdad all'operazione contro “criminali” nella città del sud, fino a pochi mesi fa sotto controllo dell'esercito inglese. I sostenitori di Sadr, molti e ben armati, accusano l'esecutivo di aver sferrato una guerra aperta contro il gruppo. Mentre Baghdad è ancora sotto coprifuoco e la zona verde sotto i colpi di mortaio, fonti vicine a Sadr assicurano però che alcuni agenti delle forze di sicurezza del governo hanno già deposto le proprie armi davanti ai vertici locali del Mahdi. Moqtada ha ordinato ai propri uomini di non deporre le armi, come richiesto dal premier Nouri al Maliki, sciita e capo di un governo a maggioranza sciita appoggiato dagli Stati Uniti. Il primo ministro ieri ha definito “peggiore di al Qaida” il nemico che le sue forze stanno affrontando. Il leader del Mahdi in tutta risposta ha chiesto alla Lega araba il riconoscimento della sua “resistenza”, opponendosi al governo iracheno contro cui i suoi uomini hanno ripreso le armi dopo sette mesi di cessate il fuoco. E, isolato come lo dipingono molti analisti e commentatori, si rivolge a un'organizzazione particolarmente disposta, in queste ore, ad ascoltare il mantra antiamericano. L'appello di Moqtada – ancora parziale, visto che al Jazeera ha lanciato un frammento di intervista, ma poi si è dedicata a seguire parola per parola i discorsi degli ospiti di Damasco – è rivolto a Teheran, che ha scelto il summit in Siria per ravvivare la sua influenza nell'area. Tra i leader arabi, in bella mostra, c'era infatti il ministro degli Esteri iraniano, quel Manouchehr Mottaki che, nel ruolo di osservatore, ha ricordato con tono suadente quanto l'incontro sia “un'occasione importante per risolvere i problemi che stanno affrontando i paesi arabi e per noi iraniani un'occasione per migliorare i rapporti con loro”. Proprio per non sedersi al suo cospetto, il Quartetto arabo sul quale l'Amministrazione Bush punta per arginare l'Iran ha inviato alla conferenza soltanto delegazioni di basso livello, accusando la Siria di bloccare la risoluzione della crisi presidenziale in Libano, come ha ricordato ieri in una conferenza stampa a Riad il ministro degli Esteri saudita Saud al Faisal. Damasco non si sente indebolita dal boicottaggio, al contrario, forte della sua alleanza con l'Iran e la protezione concessa a Hezbollah e Hamas, si presenta come muro portante della casa sciita di Teheran. E mentre il segretario di stato americano Condoleeza Rice arriva a Gerusalemme e sarà a breve anche ad Amman per incontrare re Abdallah, il colonnello Muhammar Gheddafi, vestito con una bella tunica marrone, ha spinto con voce ferma i paesi membri a migliorare le proprie relazioni con il regime degli ayatollah: “Non c'è scampo dall'Iran, è un vicino, un fratello musulmano e non è vostro interesse farvelo nemico”, ha detto il presidente libico. In questo clima di divisioni – quelle attive sul terreno in Libano, nei Territori palestinesi e in Iraq – Sadr vuole riaccreditarsi presso il regime di Teheran e spinge i suoi a non cedere all'aggressione del governo sostenuto da Washington e aiutato ieri nelle battaglie dai bombardamenti americani. “Sadr ci ha detto di deporre le armi soltanto davanti a uno stato capace di buttare fuori l'occupante”, ha detto alla France Press Haider al Jabari, membro dell'ufficio politico di Moqtada. Ma la domanda che più ricorre è: con chi sta l'Iran in questa guerra civile? Il portavoce di Mottaki da Teheran ha detto all'agenzia di stampa di stato che “le violenze in Iraq devono finire subito perché non sono nell'interesse del popolo iracheno”. Teheran, come il governo di Baghdad, ha la priorità della stabilità. Un sud sciita calmo e governabile è preferibile a una lotta di potere interna alla famiglia sciita, soprattutto in un momento in cui i proventi del petrolio sono più attraenti che mai. Maliki, appoggiato dal consiglio islamico di Abdul Aziz al Hakim con le brigate Badr, è in questo senso più affidabile del giovane Sadr.