La via Gluck del candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti
Benvenuti a Hyde Park, lo specchio di Obama
Quando, all'inizio di quest'anno, è stato temporaneamente messo in difficoltà dall'associazione con il bombarolo William Ayers, Barack Obama ha dato, in un certo senso, la colpa al suo quartiere.
Dal Foglio del 10 giugno 2008
Quando, all'inizio di quest'anno, è stato temporaneamente messo in difficoltà dall'associazione con il bombarolo William Ayers, Barack Obama ha dato, in un certo senso, la colpa al suo quartiere. “E' uno che vive nel mio quartiere”, ha dichiarato Obama alzando le spalle, come a dire: “Non dobbiamo forse tutti noi convivere in qualche modo con questi vecchi e stravaganti terroristi interni che si aggirano per il cortile?”. Ma, naturalmente, non tutti i quartieri ospitano un ex militante con moglie ex militante, Bernardine Dohrn, di un'organizzazione violenta di sinistra, soprattutto non come pilastri della comunità. Il tono così leggero di Obama ha indotto buona parte degli americani – persone che vivono in ogni genere di comunità senza bombaroli – a guardarsi in faccia e dire: “Perbacco, ma in quale quartiere vive Barack?”.
Non è una domanda frivola o irrilevante. Esattamente come un parente chiacchierone, un socio d'affari disonesto, l'iscrizione a un selettivo club di golf o un'antica e ormai dimenticata storiella bisessuale, un quartiere può rappresentare un problema per un candidato alla presidenza. Gli elettori spesso sono convinti che incidenti come questo rivelino qualcosa di essenziale su un potenziale presidente. E i consiglieri politici fanno ogni sforzo per spingere gli elettori a questa conclusione. Ricordate il povero Michael Dukakis, lo sventurato candidato presidenziale democratico per le elezioni del 1988? Dukakis viveva a Brookline, un sobborgo di Boston abitato da “progressisti” che proclamano orgogliosamente di usare i mezzi pubblici, di mangiare pane integrale, di aderire a diversi comitati, di partecipare a interminabili meeting il cui unico scopo è nominare altri comitati e di coltivare verdure cinesi nel proprio orticello. Brookline era una nicchia separata dal mondo in cui vive la maggior parte degli americani, e i repubblicani ne fecero il simbolo della lontananza di Dukakis dalle esigenze e necessità dell'americano medio. Forse si è trattato di un colpo basso, ma i repubblicani non parlavano a vanvera. Chiunque avesse conosciuto Brookline non si sarebbe sorpreso nello scoprire che a Dukakis piaceva portarsi in spiaggia libri sulla pianificazione svedese per lo sfruttamento del territorio, cosa che lo rendeva all'istante inadatto alla presidenza.
La stessa cosa che i repubblicani pensavano di Brookline, i sostenitori di Obama la pensano del suo quartiere: è uno specchio delle qualità dell'uomo. “Esiste un modo migliore per definire se stesso che quello del luogo in cui si è scelto di vivere e crescere la propria famiglia?”, ha detto su USA Today John Rogers, amico e consigliere elettorale di Obama. Il quartiere di Obama, Hyde Park, si trova nel South Side di Chicago, a circa sette miglia dal Loop. Se si escludono gli anni degli studi al college e alla scuola di legge, più parte di un anno trascorso a Manhattan per lavorare per una società di consulenza, Hyde Park è il solo posto in cui Barack Obama ha vissuto in età adulta. E' andato ad abitarvi nel 1984, quando si è trasferito a Chicago con la carica di community organizer, e vi è tornato dopo la laurea alla Harvard Law School. Qui ha conosciuto la sua futura moglie, cresciuta nel vicino quartiere di South Shore, qui sono nati i suoi figli e qui vanno a scuola (privata). Qui, infine, ha comprato una villa nel 2005, con i guadagni dei suoi due bestseller in cui racconta con passione la vita che qui ha costruito.
L'affetto è reciproco. Quando Obama ha annunciato la sua candidatura nel febbraio del 2007, l'Hyde Park Herald ha pubblicato un numero speciale. C'erano poi pagine e pagine di testimonianze di vicini di casa, negozianti, attivisti politici e persino del suo barbiere personale. Tutti erano d'accordo sul fatto che Barack è “un uomo pratico e alla buona”. Se pensate che tutto questo abbia un'improbabile aria pittoresca e da Norman Rockwell, beh, lo pensano anche gli abitanti di Hyde Park. Spesso parlano del loro quartiere definendolo una “cittadina”. Hyde Park non è una città e, con una popolazione di circa 35 mila abitanti, è piuttosto piccolo: appena quindici isolati da nord a sud, più un'altra quindicina da Washington Park, a ovest, fino al confine orientale sulle rive del Lago Michigan. L'isolamento di questo quartiere rinforza il suo carattere di intimità urbana. E' il quartiere più integrato sul piano razziale nella città con la più forte segregazione razziale di tutta la nazione. Su tre lati è chiuso da alcuni dei più spaventosi ghetti del paese, miglia e miglia di strade sporche e piene di immondizia, ettari ed ettari di lotti abbandonati, isolati e isolati di condomini fatiscenti e di appartamenti vuoti, resti del XIX secolo. Tutto questo termina improvvisamente al limite di Hyde Park, lasciando il posto ad alberi e giardini e lussuose ville e palazzi. Hyde Park è diverso da ogni altro quartiere di Chicago, anzi di qualsiasi città d'America.
Alcuni lo considerano una città universitaria perché la sua istituzione più importante e caratteristica è la University of Chicago, una delle più prestigiose università del mondo. Un mio amico una volta ha definito Hyde Park una “Berkeley con la neve”, e in effetti ha la stessa atmosfera studentesca, lo stesso attivismo politico e intellettualismo bohemien, lo stesso allarmante numero di uomini che sembrano tutti annunciatori della National Public Radio, con la barba rada, occhiali con montatura in plastica, jeans stretti, scarpe da ginnastica, zainetto e bicicletta (detto per inciso, questa è una buona descrizione di William Ayers). Ma le somiglianze possono essere sopravvalutate. “Non si tratta affatto di una Berkeley con la neve”, mi ha fatto osservare un professore dell'University of Chicago. “Anzi, è proprio la neve a impedire che diventi come Berkeley. La neve e il freddo tengono la gente lontana dalla strada. Fanno stare tutti dentro. Non ci sono studenti che stanno a gironzolare per le strade, anche se hanno abbandonato gli studi o se si sono già laureati. Se stanno qui, fanno qualcosa. Altrimenti, se ne vanno via. Qui fa troppo freddo per stare in giro”.
Questo contribuisce a spiegare il tasso relativamente basso di criminalità e, in parte, la fama che ha l'università di essere ricettacolo di persone all'antica e un po' goffe, dei nerd insomma, e di essere, come ha detto un giornalista, una “roccaforte del conservatorismo”. E il conservatorismo, secondo l'opinione generale, permea tutto il quartiere, influenzandone le politiche e aumentando ulteriormente la sua diversità. Ma questa fama di quartiere di destra si fonda su una semplice, per quanto imprecisa, serie di dati che sconvolge la delicata sensibilità dei professori universitari: delle decine di migliaia di professori che hanno insegnato alla University of Chicago nel corso degli ultimi cinquant'anni, circa sessantacinque hanno votato, almeno una volta nella vita, per i repubblicani. Buona parte di questi rivoltosi erano discepoli del più famoso professore dell'università, l'economista liberista Milton Friedman; altri lo erano di Allan Bloom, il filosofo straussiano che dirigeva l'Olin Center for Inquiry into the Theory and Practice of Democracy. Ma Bloom e Friedman sono morti, e l'Olin Center ha chiuso i battenti nel 2005. I loro discepoli e colleghi che ancora rimangono all'interno dell'università non stanno certo ringiovanendo. E' difficile che l'ormai traballante reputazione di conservatorismo dell'università, e del quartiere, riuscirà a sopravvivergli.
L'impressione della sua diversità, invece, probabilmente continuerà a permanere. Spesso si dimentica che anche questa diversità ha i suoi limiti. “A Hyde Park – mi ha detto un abitante del quartiere – l'integrazione si limita ai bianchi e ai neri”. Il gruppo etnico in più rapida espansione del paese, quello ispanico, non è praticamente presente, e lo stesso vale per gli asiatici. Il quartiere è noto soprattutto come luogo preferito della upper class nera, specialmente per chi non desidera trasferirsi in un quartiere esclusivamente bianco ma non vuole nemmeno essere costretto a convivere con la criminalità e le scuole indecenti dei quartieri che si trovano appena più a sud, ovest e nord. Alcuni di questi sono persone famose, come Harold Washington, il primo sindaco nero di Chicago, che viveva in una casa presso le rive del lago, o Mohammed Alì, che viveva un isolato più in basso di Louis Farrakhan (leader della Nation of Islam, ndr), che vive nella vecchia casa di Elijah Muhammad (ex leader della Nation of Islam, ndr), appena svoltato l'angolo dalla casa della vedova di Joe Louis. La maggior parte dei suoi abitanti è composta da avvocati e amministratori delegati, dottori e tecnici impiegati nell'ospedale universitario, amministratori e professori dell'università – uniti ai membri della upper class bianca da preferenze e aspirazioni politiche comuni, e dal reciproco compiacimento per il loro straordinario quartiere.
L'isolamento di Hyde Park è appositamente studiato. L'università decise di acquistare e radere al suolo le palazzine alle punte estreme del quartiere, che potevano servire da tampone o trincea di protezione dal confinante South Side, che intanto si affollava di neri caduti in miseria. Un isolamento che stende un alone di irrealtà su tutto il quartiere. E' come se fosse un luogo senza radici. Senza un'identità ben precisa, né bianco né nero. Hyde Park non emana la briosa energia di una città universitaria, né offre le pittoresche stravaganze del ridente quartiere. Passeggiando per le sue tranquille vie in una mattinata di maggio, lo sguardo s'incanta davanti ai lillà che traboccano dai muretti di pietra, le ville con sontuosi giardini che si affacciano sui viali, le suggestive palazzine ghermite da piante rampicanti, su cui si stende l'ombra di imponenti querce o pioppi. Occorre almeno un giorno, o giù di lì, per accorgersi dei tasselli mancanti. Nessun cinema, per dire, e pochi negozi. Acquistare un paio di scarpe o di pantaloni è una impresa impossibile. I ristoranti scarseggiano, con una sola eccezione: ma i prezzi sono proibitivi, e indulgono alle bizze culinarie della gioventù. Soltanto da pochi mesi è stato aperto un supermercato pulito e ben fornito.
Quanti vivono a Hyde Park sembrano, a volte, stranamente inconsapevoli del fatto che l'unicità del proprio quartiere è interamente frutto del noblesse oblige inculcato nelle università. Per chi viene da fuori, ciò appare evidente al cospetto delle vetture della polizia del campus, che pattuglia il quartiere 24 ore su 24, e dalle cabine telefoniche per le chiamate d'emergenza di cui quest'ultimo è disseminato, ben oltre i paraggi dell'università vera e propria, sicché chiunque può avvalersene per chiedere l'aiuto di un poliziotto. Il paternalismo è meno eclatante perché non ha mai avuto connotati razziali. Il ciclo di rinnovamento urbano ha messo alle porte tutti i poveri, bianchi e neri, giacché negli anni Cinquanta, tra i funzionari dell'università, tutti liberal illuminati, serpeggiava il timore di un declino socio-economico. “Sognavano un ambiente confortevole, dove potessero vivere le classi più agiate – dice Jack Spicer, uno che vorrebbe conservare il quartiere – Non volevano soltanto famiglie nere, né tutte famiglie nere, ma quelle ‘giuste' erano benvenute”. Risultato: l'ormai celebre armonia razziale del quartiere. Il commediografo (e poi regista) Mike Nichols, che mosse i primi passi in un club sulla vecchia 55esima strada, ha coniato una definizione dello stile di vita liberal di Hyde Park valida per tutte le stagioni: “Bianchi e neri, che marciano a braccetto, fianco a fianco, contro i poveri”.
Appena uscito dall'università, Barack Obama si è fatto spazio nei meandri di questo curioso retaggio. Sotto il profilo culturale, non è mai stato un “south sider”, perché nessuno, nel South Side, considera Hyde Park un suo distretto. Si tratta di un'anomalia che lo scrittore e critico Andrew Patner, nato appunto a Hyde Park, un giorno ha tentato di spiegarmi, durante un giro in macchina per il quartiere. “C'è una certa insofferenza verso Hyde Park tra i neri di South Side, per lo più poveri”, ha spiegato. “Chi vive in un altro quartiere può fare un salto a Hyde Park nei weekend. Ma c'è una parola che spiega tutto: ‘sadiddy'. Il significato è: non c'è posto migliore, forse, della propria casa. Pretenzioso, no? Ecco, è più o meno questo il giudizio su Hyde Park. E' un posto troppo bizzarro, troppo lontano dalle abitudini del grosso di Chicago”.
Tutto ciò ha avuto le sue ripercussioni sul futuro politico di Obama. La maggior parte dei politici afroamericani di successo, a Chicago, passa necessariamente per le grandi macchine del Partito democratico: quella più vecchia di Richard J. Daley, oppure la sua versione più soft capeggiata dal figlio di quest'ultimo nonché attuale sindaco, Richard M. Daley. Persino Harold Washington, ormai canonizzato come il più grande riformatore di Chicago, emerse dai ranghi dell'apparato. Di contro, i politici di Hyde Park, bianchi o neri, hanno contrastato con forza la macchina partitica e la morsa in cui stringeva la vita politica della città. “Politicamente – ha scritto David Fremon, analista politico di Chicago – Hyde Park non si è mai inserito nella città”. Obama è un politico il cui pedigree è segnato da Hyde Park, dunque estraneo alla tradizionale linea di discendenza della politica “nera” di Chicago. “Quando Barack si candidò alla presidenza – racconta Patner – la comunità nera reagì con seccata indifferenza”. Hyde Park esclusa, ovviamente. “Non sembrava, molto semplicemente, un grande affare”.
Ecco invece la chiosa di un avversario politico, il senatore Donne Trotter, in un'intervista al Chicago Reader: “All'interno della nostra comunità, Barack è spesso visto come un bianco mascherato da nero. Basta guardare i suoi sostenitori. Chi ha fatto sì che arrivasse dov'è ora in così poco tempo? Facile: quei tipi di Hyde Park, che non sempre tengono presenti gli interessi della comunità”. “E' una delle pecche del suo curriculum: aver scelto un percorso fuori dal seminato”. Ma Patner va ben oltre. “Si è dovuto sempre misurare con la comunità nera, ma l'imprimatur non è mai arrivato. Ci sono anche gli aspetti positivi, certo”.
Eccone uno: Obama, la stella di Hyde Park, è apparso subito più affascinante, e meno minaccioso, ai liberal bianchi dentro e fuori Hyde Park. L'altro atout, spiega Patner, è che “essendo formatosi a Hyde Park, anziché nella macchina del partito, è rimasto immune dalla corruzione che infesta gli apparati”. Secondo gli standard di Chicago, il piccolo favore immobiliare concessogli dal trafficone (poi condannato) Tony Rezko è quasi trascurabile: è il prezzo degli affari, o un piccolo favore tra professionisti, assolutamente normale sia tra i politici dell'apparato sia tra i cosiddetti riformatori. Nessuno dei politici progressisti con cui ho avuto l'occasione di parlare a Hyde Park l'ha considerato un episodio riprovevole: magari “deludente”, come ha detto un veterano, ma niente affatto invalidante. Quasi tutti, invece, hanno ravvisato in Obama un'espressione certosina della propria famiglia politica.
“Barack è perfetto per il quartiere!”, mi ha confidato il rabbino Arnold Wolf, chiacchierando un pomeriggio nella sua casa di Hyde Park. La sua mole e la barba bianca lo fanno quasi scambiare per Babbo Natale. Uguali anche le strizzate d'occhio. Si è insediato a Hyde Park prima del remaquillage urbano, e ne ha visti gli effetti in prima persona. Ha guidato per un quarto di secolo la congregazione del KAM Isaiah Israel, una sinagoga a un passo dalla villa di Obama. (Di recente, i servizi segreti hanno usato le sue stanze da bagno).
“Non si può sostenere che Barack sia figlio di Hyde Park. Non sono qui, in realtà, le sue radici. Tutti però si sono accorti del potenziale, e da subito. Ai suoi esordi, negli anni Novanta, organizzammo una festa in suo onore qui a casa mia. Ricordo che pronunciai queste esatte parole: ‘Questo ragazzo può vendere il nostro prodotto, e in modo grandioso”. Ma quale prodotto? “Vede, non è quello che lei potrebbe pensare”, risponde il rabbino Wolf. “Niente di radicale o estremista. Soltanto, una filosofia razionale e progressista fondata sull'esperienza. E qui lo si vede benissimo. Nel nostro quartiere c'è vera integrazione. Ci siamo riusciti, per davvero! Si guardi intorno. E Barack e la sua famiglia cadono a pennello. Questo è il loro quartiere”. Mentre mi accompagna alla porta, si sofferma appena sulla metamorfosi urbana che ha forgiato il nuovo Hyde Park. Il suo giudizio al riguardo, dice, non sarà mai univoco. “Anche all'epoca, sembrava che l'università ci stesse salvando, e invece ci stava distruggendo. Ci permetteva di restare a galla, ma intanto faceva strame dei vecchi simboli, degli antichi monumenti, degli alberi secolari, delle profonde radici. Ma ha reso il quartiere diverso, unico. E' evidente che qui non esiste alcun conflitto di classe”. Si ferma, strizza l'occhio. “Perché c'è soltanto una classe: quella agiata”.
Il paradosso sarebbe divertente, se non fosse così stridente: l'America nera, dopo 4 secoli di status di inferiorità forzata, regala al paese un candidato plausibile alla presidenza, e quale colpa gli viene rinfacciata? E' un elitario. La colpa è in parte, forse, di Hyde Park. La visione obamiana dell'America non si abbevera, a quanto pare, al di là della trincea. David Mendell, nella sua fondamentale biografia “Obama: From Promise to Power”, cita un collaboratore del senatore nero: “Obama parlava sempre della ferrovia di New Rochelle, che trasportava i pendolari da e verso la città di New York, e diceva che non voleva passare il resto dei suoi giorni su quel treno. L'idea di una vita scevra di dinamismo, ma passata a fingere di fare qualcosa, lo spaventava terribilmente”. Nel suo diario, Obama descrive la propria madre intenta a fuggire “dalla spocchia e dall'ipocrisia” del suo paesino nel Midwest. Soltanto una scarsa familiarità con l'influsso benefico dell'American life del ceto medio può alimentare simili cliché.
“Sono cresciuto senza radici”, ripete spesso Obama. E' il ritornello della sua vita, la cui storia egli racconta in prima persona. Ha persino scritto un libro, un piccolo capolavoro, sui tormentati tentativi di farsi spazio nel macrocosmo. Dalle Hawaii all'Indonesia, e ancora alle Hawaii, poi Los Angeles, Manhattan e Cambridge (Massachusetts), quindi Hyde Park: non ha mai vissuto in un angolo dell'America che fosse uguale al 90 per cento del resto del paese. Ricordo che ne rimasi colpito un pomeriggio, seduto in macchina, mentre guidavo verso la Trinity United Church of Christ, la chiesa ormai oggetto di mille controversie che il senatore ha frequentato per circa vent'anni, dopo essere stato a casa di quest'ultimo. Durante il tragitto, in autostrada o percorrendo le strade normali, si viene catapultati dalla calma affettata di Hyde Park a un quartiere disastrato dopo l'altro. E finalmente si arriva alla Trinity Church che domina un distretto di villini a mattoni gialli, qualcuno grazioso e accogliente, altri nascosti dalla vegetazione, le imposte e le serrande scardinate. Dopo la celebrazione, Obama carica la famiglia in macchina e torna a casa. E' a Hyde Park che è voluto ritornare, è lì che ha scelto di vivere, nel quartiere che, cinquant'anni or sono, fu strappato alle sue radici. Come ogni città universitaria, ha tutto il trambusto e la precarietà che il titolo le attribuisce. Nessuno, qui, dà l'impressione di essere a casa propria. Gli Armours, gli Swifts e altre storiche dinastie se ne sono andate molto tempo fa. Gli operai e le loro famiglie sono stati allontanati dall'università. I poveri sono stati relegati a debita distanza. E al suo interno è potuta regnare l'armonia tra residenti bianchi e neri, ma i primi sono rimasti solo provvisoriamente, e nei secondi, che qui hanno scelto di vivere, alberga lo stesso sentimento di estraniamento, pure se sono trasmigrati da un quartiere limitrofo. E' il posto perfetto per un uomo senza identità e che desideri forgiarne una secondo i propri gusti.
di Andrew Ferguson
© Weekly Standard (traduzione di Aldo Piccato ed Enrico Del Sero)


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