Asia, il continente più pericoloso
Il continente asiatico è come un giovane ragazzo, “vivace e immaturo”, dice al Foglio Bill Emmott, ex direttore dell'Economist oggi scrittore e commentatore. “L'Asia può trasformarsi in un posto molto pericoloso perché non è stabile”. L'attacco a Mumbai è la dimostrazione di una debolezza endemica della regione
Il continente asiatico è come un giovane ragazzo, “vivace e immaturo”, dice al Foglio Bill Emmott, ex direttore dell'Economist oggi scrittore e commentatore. “L'Asia può trasformarsi in un posto molto pericoloso – continua Emmott, che ha appena scritto un libro dal titolo “Asia contro Asia” – perché non è stabile”. L'attacco a Mumbai è la dimostrazione di una debolezza endemica della regione, che si riflette in istituzioni fragili e vulnerabili, pure in un paese che cammina sulla strada della democrazia. “La provocazione di Mumbai è rivolta sia alla politica indiana – spiega Emmott – che si sta posizionando per le elezioni del prossimo anno, sia per la nuova amministrazione americana, sia per la regione asiatica nel suo complesso”. Una regione che non sta bene, che sta subendo i peggiori contraccolpi dalla crisi economica globale: Cina, Giappone e Russia hanno visto volatilizzarsi anni di prosperità e crescita (per quanto scomposta) nelle ultime settimane, al confronto Wall Street è un paziente pronto per essere dimesso dall'ospedale.
La Cina è il paese cui tutti guardano con maggior preoccupazione. Due giorni fa il governo di Pechino ha deciso un taglio drastico dei tassi d'interesse per i depositi e per i prestiti – non si vedeva un taglio così da undici anni, ed è il quarto nelle ultime dieci settimane – per dare uno stimolo alla spesa. “La crisi cinese è stata ampiamente sottovalutata”, dice Emmott. Il tasso di crescita previsto per il prossimo anno è intorno al 7 per cento, che agli occhi degli europei è un numero da leccarsi i baffi ma che per un paese che registrava ritmi di galoppo a due cifre è un rallentamento enorme. “La questione economica in un paese a partito unico diventa questione politica e la Cina ha una paura pazzesca dell'instabilità sociale”, dice Emmott. E' per tenere a bada questi timori che poco meno di un mese fa Pechino ha varato un grandioso piano di rilancio economico incentrato sulle infrastrutture: l'8 per cento del suo pil – 586 miliardi di dollari – investito in ferrovie, ponti, metropolitane, aeroporti, ospedali, scuole. “Le aspettative dei cinesi sono in aumento – dice Emmott – Pechino doveva necessariamente creare posti di lavoro per non detonare la bomba delle proteste”.
Il tasso di crescita a due cifre era indispensabile per assorbire i 20 milioni di contadini che arrivano nelle metropoli cinesi ogni anno. Come spiega un paper del Council on Foreign Relations, soltanto nel 2008 sono già state chiuse 67 mila fabbriche per prodotti da esportazione e nelle città delle sterminate campagne cinesi ci sono state manifestazioni e scontri con la polizia. Nelle città che faticano a ricavare spazi per le masse in arrivo si creano dieci milioni di posti di lavoro ogni anno (il tasso di disoccupazione è sotto il cinque per cento), eppure permangono a oggi cinque milioni di studenti usciti dal college che ancora non hanno trovato un lavoro. “Pechino non aveva molte alternative”, sorride Emmott . “E certo gli investimenti di lungo periodo hanno un effetto positivo sullo sviluppo industriale di un paese. Ma non dobbiamo farci ingannare: anche la Cina avrà bisogno, entro i prossimi dodici mesi, di un piano Paulson per le banche”.
Gli istituti di credito cinesi sono tutti di proprietà dello stato, ma in pancia hanno titoli tossici tanto quanto gli istituti occidentali (come dimostra la crisi di Hong Kong), e prima o poi dovranno fare i conti con questo cancro. “In più c'è l'inflazione. Tutte le economie asiatiche non soltanto subiscono le conseguenze della bolla creditizia, ma vivono da mesi la crisi inflattiva”. Il risultato è che tra grandi progetti in infrastrutture e inevitabili bailout finanziari “il budget cinese sarà completamente riscritto – dice Emmott – e Pechino dovrà cominciare a prendere a prestito soldi per sostenere crescita e investimenti. Il problema è che non ha dimestichezza con il mercato”. Voci insistenti dicono che il premier, Wen Jiabao, diventato popolarissimo per l'umanità con cui aveva gestito lo scempio del terremoto dell'estate scorsa, è oggi sotto assedio. I duri del Partito comunista vogliono riprendere in mano il paese e prepararlo come sanno loro alle eventuali – per molti esperti inevitabili – rivolte sociali. Di fronte alla debolezza economica e politica, il vivace e immaturo ragazzo asiatico ha spesso reazioni pericolose. “Il compito di Barack Obama – conclude Emmott – è di renderlo più responsabile”, un adulto.
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