S'interrompe un'emozione
Chi di Cav. ferisce di Cav. perisce
C'è la grande guerra contro l'aumento dell'Iva per Sky: è una guerra ideale, grandiosa, combattuta a sinistra contro il governo Berlusconi (colpevole secondo Walter Veltroni di volere “colpire un'impresa, i cittadini e deprimere ulteriormente il paese”), ma combattuta anche con passione dalle star del cinema e della tivù, indignate perché non s'interrompe un'emozione. / Guarda La guerra di Sky vista da Vincino
di Annalena Benini e Marianna Rizzini
C'è la grande guerra contro l'aumento dell'Iva per Sky: è una guerra ideale, grandiosa, combattuta a sinistra contro il governo Berlusconi (colpevole secondo Walter Veltroni di volere “colpire un'impresa, i cittadini e deprimere ulteriormente il paese”), ma combattuta anche con passione dalle star del cinema e della tivù, indignate perché non s'interrompe un'emozione, non si penalizza chi ha portato aria fresca in salotto, vendendo libertà di scelta e nuovi programmi, nuovo intrattenimento e nuova, internazionale informazione. E' una battaglia giusta, e ne ricorda un'altra, anzi ne è la fotocopia: la storia ha soltanto capovolto vittime e carnefici. Allora il bersaglio era Mediaset e lottava orgogliosamente contro la proposta di abbassare la quota di pubblicità necessaria al proprio sostentamento, mentre a sinistra si dichiarava orribile l'idea di una tivù “commerciale” (commerciale era un aggettivo dispregiativo): le stelle televisive parteciparono a una serata del Maurizio Costanzo Show intitolata: “Vietato vietare”, per soccorrere la pluralità di informazione e i propri scintillanti stipendi, e l'Italia scelse con entusiasmo “Il gioco delle coppie”, nessun canone e quintali di pubblicità. Più in grande, era l'idea della libertà, dell'impresa, dei posti di lavoro, della novità, dello svecchiamento della televisione tradizionale e costretta al canone.
Erano giovani contro vecchi (anche se Raimondo Vianello, che non era un ragazzino nemmeno negli anni Novanta, sostenne il Cavaliere allora e sostiene adesso con la stessa coerente convinzione Sky: “Questa faccenda dell'Iva raddoppiata mi sembra molto ingiusta. E anche strana come iniziativa da parte di un uomo di tivù che ha avuto i suoi momenti difficili, con un fronte contrario che creava difficoltà alle sue reti… Mi dispiace molto. Chissà che Berlusconi non ci ripensi”, ha dichiarato ieri al Corriere della Sera, appoggiato dalla gloriosa collega ed europarlamentare del Pdl Iva Zanicchi). Ma persino Antonio Di Pietro (“che ha l'aria di non avere visto una sola puntata di ‘Desperate Housewives'”, dirà Aldo Grasso al Foglio, ma è senz'altro appassionato di calcio) si è infervorato nella guerra pro Sky, come del resto Massimo D'Alema. Vogliono che Silvio Berlusconi ci ripensi. E lo vogliono in un modo che segna, per sempre, il suo trionfo retroattivo, la vittoria delle coordinate culturali berlusconiane che fecero scandalo, a partire dagli anni Ottanta (Nanni Moretti denuncia da anni l'indottrinamento berlusconiano avvenuto tramite la televisione commerciale, che avrebbe eliminato l'opinione pubblica, e il suo Caimano dichiara che: “Sono tutti berlusconiani”).
Allora ci fu la guerra dei Puffi, cioè l'appello alle famiglie perché non permettessero che i loro bambini venissero privati della possibilità di vedere il cartone animato della svolta moderna, ora c'è la difesa accorata e democratica di Murdoch, il magnate più magnate che esista, e la bella Ilaria D'Amico, in tubino nero e tacchi a spillo, denuncia l'attacco “alle famiglie” attraverso l'aumento dell'Iva (e quindi dell'abbonamento). Nata come tivù individualista, Sky ha vinto, è diventata il simbolo delle famiglie (quattro milioni e seicentomila famiglie, ha detto Ilaria più nazional popolare possibile) ed è, esattamente come la scandalosa Fininvest di un tempo, battaglia a favore dell'impresa, dei posti di lavoro, della libertà. Lo spot che invita a inviare email di protesta al presidente del Consiglio è completamente identico, nei contenuti, al ritornello berlusconiano: lavoro, ricchezza, “la possibilità di scegliere i programmi che si preferiscono in piena libertà”.
Allora erano i Puffi, poi “Beautiful”, ora è “Dottor House”, sono le partite, è “In Treatment”. E' la potenza dell'innovazione che chiede di non essere ingabbiata e penalizzata, ma è anche Berlusconi che, come disse il Caimano, è dappertutto, e trionfa, infine, anche contro se stesso? La storia gli si ritorce contro, ma i suoi avversari hanno abbracciato e ora sbandierano i suoi valori di ieri, le sue battaglie, il suo commercio (“E' il momento di rilanciare i consumi, non di deprimerli”, ha berlusconianamente dichiarato Marina Sereni, vicepresidente dei deputati del Partito democratico)
Abbiamo chiesto al massimo critico televisivo italiano, Aldo Grasso, all'ex vice direttore generale di Publitalia e ideologo della tivù commerciale Carlo Momigliano, al politologo Edmondo Berselli e all'uomo televisione Gianni Minoli di commentare questa capriola, questo capovolgimento. Secondo Aldo Grasso questi sono “valori totalmente berlusconiani che si ritorcono contro Berlusconi: sarebbe stato molto elegante, infatti, che Berlusconi non se ne occupasse proprio. Era l'unico gesto che non doveva fare, l'unica cosa che non doveva toccare: la televisione”. Secondo Aldo Grasso, Sky poteva evitare di copiare completamente la vecchia campagna di Berlusconi per la tivù commerciale e, invece, puntare su altro: “Sky ha salvato la tivù italiana, ha ridato vita a quella scatola in salotto, ha permesso agli abbonati di affacciarsi un po' sul mondo, di seguire le elezioni americane, di vedere la serie televisiva più sensazionale e bella che sia mai esistita, ‘In Treatment', era questo il vero spot da fare, ma forse era eccessivamente raffinato e Murdoch ha scelto il nazionalpopolare, Ilaria D'Amico che parla alle famiglie, il ritornello sui posti di lavoro”.
Murdoch ha scelto la berlusconità (“ma Berlusconi l'ha scelta quando il concetto di televisione commerciale era completamente estraneo alla nostra cultura”), “questo è evidente: un messaggio berlusconiano contro Berlusconi, e se io fossi Berlusconi non avrei mai toccato una cosa così preziosa, che ha salvato anche Mediaset, dandole un motivo per cui lottare, confrontarsi, arricchirsi, provare a modernizzarsi”. Fosse Berlusconi, Aldo Grasso direbbe: va bene caro Murdoch, niente ritocchi all'Iva ma ridia agli abbonati Studio Universal, ché in Cult oramai ci sono solo i film fondi di magazzino e noi vogliamo tornare a rivedere i film belli”.
E' talmente evidente, ormai, l'indispensabilità di Sky, che quando sabato scorso una nevicata coprì la parabola e Grasso si trovò a scegliere tra Pippo Baudo e Maria De Filippi, gli pareva di assistere alla tivù del dopoguerra. “Il grande merito di Sky è aver riportato la televisione italiana nella modernità: ha affinato i gusti degli italiani, ha introdotto le serialità americane, ha dato a Mediaset una ragione per esistere e per continuare a combattere (la Rai è finita, ci si può mettere una croce sopra, ed è bastato guardare una puntata di David Letterman, ad esempio, per respirare un po', perché Serena Dandini scomparisse per sempre dalla faccia della terra e dello share)”. Secondo Grasso, Berlusconi in quanto presidente del Consiglio doveva responsabilmente allearsi con Murdoch, “soprattutto in un momento come questo, mentre c'è crisi e la gente ha bisogno di non deprimersi: sono andato a controllare, e nel 1929 la gente andava di più al cinema, aveva bisogno di distrarsi: nella nostra società, poi, non c'è distinzione tra sogni e bisogni, e allora certo non c'è bisogno di vedere Bruno Vespa che parla della strage di Erba, sennò alla quarta settimana del mese viene anche voglia di tirarsi un colpo. Serve allegria, serve potersi affacciare all'esterno, vedere che succede”, sentirsi un po' fichi perché guardiamo le serie americane. Insomma, giù le mani da Sky, berlusconianamente parlando.
Carlo Momigliano, direttore generale di Publiepolis, a lungo manager Fininvest, ex vicedirettore di Publitalia, è uno degli uomini che hanno “pensato” la televisione commerciale, accompagnandola nei primi decenni di vita, decenni in cui le reti del Cav. erano viste come la porta di un inferno becero e anti-formativo che si spalancava in salotto sotto forma di cartoni animati giapponesi, Drive in, film interrotti dalla gran corruttrice di teste: la pubblicità. Oggi Momigliano scorge, prima di tutto, una “curiosa inversione” nella posizione della sinistra e dalla stampa di centrosinistra riguardo alla televisione a pagamento: “Nell'anno orwelliano 1984 a sinistra si criticavano le alleanze del gruppo Telepiù – il gruppo Kirch, per esempio – considerate, come composizione azionaria, adiacenti o troppo poco ostili a Fininvest. Il gruppo Espresso-Repubblica, oggi in prima linea nella difesa di Sky, tra fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta si impegnò in una battaglia che aveva come punto focale il concetto stesso di pay tv, considerata nemica della parità di accesso a determinati programmi e contenuti.
"Ricordo una vignetta su Repubblica: la televisione alimentata a gettone che ogni due minuti ti chiede i soldi. I nemici della pay tv di allora, però, sono oggi paladini della pay tv di Rupert Murdoch”. Nel 1995, anno di referendum sulla quota di pubblicità da destinare alle reti Mediaset, ricorda Momigliano, l'ostilità di alcuni ambienti della sinistra “investì invece la televisione commerciale. I dipendenti e le star dell'allora gruppo Fininvest si mobilitarono con totale spontaneità, accusando anzi l'azienda di eccessiva disponibilità al dialogo con il ‘nemico'. Fu fatta una campagna non per boicottare il referendum ma per andare alle urne e votare no. La sinistra, allora, diceva che il coinvolgimento delle star era violazione delle regole della par condicio e, alla vigilia della consultazione, Eugenio Scalfari scrisse che qualunque fosse stato il risultato del referendum questo sarebbe stato falsato dall'utilizzo selvaggio del mezzo televisivo e dei volti noti e cari al pubblico. Si disse: è peronismo.
Oggi la mobilitazione dei conduttori e dei personaggi dello spettacolo contro il ritorno dell'Iva per Sky al 20 per cento è vista con simpatia. Nel '95 l'appello finale agli elettori fu fatto da Massimo D'Alema per il ‘sì' e da Iva Zanicchi per il ‘no'. Segno che la Zanicchi, che oggi dà torto a Berlusconi, è più coerente di una sinistra che mostra una straordinaria elasticità dei valori a seconda dell'avversario. Oggi si parla di togliere un privilegio, allora di oscurare le tv”. Da un certo punto di vista, però, Momigliano trova che le parole dei difensori “democrat” di Sky “non siano del tutto incoerenti” rispetto al passato: “La televisione a pagamento è stata comunque e sempre vista, a sinistra, come una vendita di programmi alle famiglie, e nella vendita c'è la possibilità di dire no, mentre quella commerciale è sempre stata temuta come vendita di famiglie alle imprese, attraverso la pubblicità, considerata a sinistra strumento di condizionamento”.
Ragionamenti, questi, che al politologo Edmondo Berselli appaiono inutili: “La verità è che Berlusconi ha fatto un pasticcio. Si sono distratti, si sono sbagliati. Sarebbe il caso di dirlo senza fare dell'ermeneutica. A che serve chiedersi se la tv commerciale è di destra o sinistra? Non siamo in un film di Moretti. Quello di Berlusconi è peggio di un crimine: è un errore. Stiamo ragionando sui sintomi di una malattia, inutile filosofeggiare sulla malattia. Il resto appartiene al genere ‘commedia italica', con Ilaria D'Amico che fa battaglie di civiltà per cinque euro al mese e Berlusconi che fa il difensore dei poveri”. (E ieri il premier, prima di ribadire da Tirana “non torno indietro sull'Iva al venti per cento, fu il governo Prodi a impegnarsi con l'Unione europea”, si adirava contro la “sinistra che difende i ricchi”).
D'altro canto l'inversione di ruoli è bifronte. Giovanni Minoli dice che “lo spot di Sky sembra il vecchio ‘vietato vietare'”. E però per il conduttore-autore-giornalista Rai “non ha senso chiedersi se questa battaglia pro Sky significhi sdoganamento a sinistra della televisione commerciale. La tv commerciale è un ‘in sé' del mondo moderno e comunque è stata sdoganata dalla sinistra almeno dieci anni fa, quando D'Alema visitò gli studi Mediaset. Bisogna invece chiedersi se questa tassa sia lecita o illecita. Certo, colpisce il fatto che sia il governo Berlusconi a imporla, vista la posizione del premier, possessore di tv. Nel merito, però, questa è una tassa che voleva mettere anche Prodi. Il vero punto su cui riflettere è: quanto effettivamente Rupert Murdoch investe, in Italia, di quello che prende in Italia?”. Insomma, a questo punto della contesa, l'unica via di uscita sembra essere un'amorosa alleanza (detassata) tra Rupert lo Squalo e Silvio il Caimano.
di Annalena Benini e Marianna Rizzini


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